L’Unione Europea è stata costruita troppo ad immagine e somiglianza del direttorio
franco-tedesco quando sembrava che esistesse un futuro solo per i paesi fondatori.
Oggi è a tutti chiaro come avesse ragione chi sottolineava invece l’ottusa costruzione
teutonica delle regole contabili, che permettevano proprio alla Francia di eluderle di
volta in volta, esercitando peraltro il suo nazionalismo economico dentro e fuori le
Alpi. Per gli altri partner, come l’Italia, solo le briciole o i frutti della partecipazione
al mercato unico senza veti particolari, come nel caso della Gran Bretagna e dei paesi
dell’Est.

Se la diagnosi, condivisa da tutti, è che serve un’Europa più forte e più equa, latita la
prognosi. Non si conoscono i programmi in campo dei diversi schieramenti,
europeisti e sovranisti, che si confronteranno alle prossime elezioni di maggio 2019.
Semplicemente perché non esistono. Eppure il lavoro non è di poco conto. Anche
coloro che svogliono smontare tutto, come Matteo Salvini, Marine Le Pen e Viktor
Orban, dovrebbero fornire risposte su argomenti cruciali, senza rifugiarsi
nell’ideologia populista: se saranno loro a comandare a Palazzo Berlaymont,
dovranno avere una tabella di marcia. Mancano totalmente risposte concrete ad

interrogativi concreti, quali l’integrazione fiscale, l’unione bancaria, lo sviluppo
sociale.

Dal punto di vista creditizio, l’architettura comunitaria necessita del completamento
della garanzia centrale sui depositi che renda omogenea la rete protettiva sui conti
correnti di centinaia di milioni di europei. Da almeno un paio di anni, i tedeschi però
puntano i piedi; immemori di aver salvato con 227 miliardi di euro di soldi pubblici le
proprie casse di risparmio, pretendono in cambio che i titoli di stato nei bilanci delle
banche non siano più a rischio zero. La trattativa si è così arenata, per gli evidenti
motivi di preoccupazione di paesi ad alto debito come l’Italia, che si affida per un
terzo a compratori quali proprio gli istituti di credito. In questo contesto, risultano
comprensibili le proteste di tutti coloro che hanno attaccato il sistema di salvataggio
bancario, il famoso bail in, andato in vigore nel 2016. Se l’Europa fa mettere in
sicurezza gli sportelli dagli stessi loro clienti, ragionano i nazionalisti, a che serve?
Ma, d’altro canto, Orban e soci hanno proposte alternative?

Analogo discorso si può fare per il Fondo salva-banche che dovrebbe interagire con il
Fondo salva-stati, aumentandone la portata finanziaria. Finora l’Italia ha versato
qualcosa come 50 miliardi di euro tra prestiti bilaterali e contributi per mettere in
sicurezza paesi come la Grecia e speso solo 13 miliardi per le sue banche, ma della
condivisione effettiva dei rischi sistemici, che pure è decisiva, non si vede traccia.
Senza questa riforma fondamentale, non si può arrivare nemmeno a discutere del
terzo pilastro, quello dell’emissione di eurobond, titoli di debito comune che

sostituiscano, prima o poi i titoli di stato nazionali. Anche qui le resistenze principali
sono di Berlino, che per ora non vuole nemmeno sentir parlare di condivisione del
debito. La forza di una vera federazione sta infatti nel poter fare indebitamento in una
moneta che si controlla, come negli stati Uniti e come non avviene nell’Eurozona.
Coloro che reclamano a questo punto il ristabilimento della sovranità monetaria, con
il ripristino del canale privilegiato tra Banca d’Italia e Tesoro, il famoso matrimonio
che proprio in vista di Maastricht fu reciso e che rappresenta dal 1795 la forza
americana, devono spiegare come farlo. I nostri sovranisti rivogliono le chiavi di
casa, ma, a parte avveniristici ritorni alla lira o a monete parallele stampate dal
Tesoro, non hanno ancora esposto come dovrebbe avvenire questa Bretton Woods
nazionale.

Se si passa poi al sistema tributario il quadro è ancora più confuso. Se non è più
accettabile come nella stessa eurozona ci possano essere paradisi fiscali per le grandi
multinazionali (come l’Irlanda e il Lussemburgo) allo stesso tempo, sia europeisti che
sovranisti, non hanno una road map su come si dovrebbe giungere invece all’Unione
fiscale. La tentazione su entrambi i fronti è invece quella opposta, di cedere a Flat
tax, dazi e accordi bilaterali. L’esatto contrario del mercato unico e proprio quello che
fa l’America di Donal Trump, che però è una federazione dalla fine del settecento.

Ma è sui conti pubblici e su come costruire manovre di politica economica credibili e
di sviluppo che si consuma il caos finale. Sia i governi europeisti, da Letta passando
per Renzi e finendo con Gentiloni, che l’attuale esecutivo Conte, hanno sempre

cercato di rilanciare la crescita facendo un po’ di deficit in più, visto che a conti fatti
l’austerity in vigore fino al 2013 ha causato recessione e disoccupazione. Bisogna
cambiare le regole! Il mantra ormai accomuna europeisti e sovranisti. Come, non è
chiaro. Da anni si discute di rivedere le norme sul Fiscal Compact, costituzione
economica non scritta che impone la riduzione del debito per raggiungere il pareggio
di bilancio senza mettere un euro sulla sviluppo. Questo trattato impone per come è
stato concepito misure spesso pro-cicliche, che peggiorano cioè le cose quando già
vanno male. E fa di peggio. chi è in procedura d’infrazione, come la Francia, non lo
deve applicare. Più assurdo di così. Averlo inserito nella Costituzione italiana rende
difficoltosa ogni manovra e asfittica ogni legge di bilancio, al di là di cosa ci sia
scritto nel Def. Per non dire dei suoi bracci armati, il Two Pack e il Six Pack, che
probabilmente in futuro verranno scambiati con alcuni gruppi di rap. Inutile girarci
attorno, tutti i partiti devono dire ai loro elettori se venuto il momento di cancellare il
vincolo del 3% di rapporto deficit-Pil. La chiarezza aiuterebbe molto a scegliere
senza avere paura dei mercati e dello spread.

Se si esce infine dagli angusti ambiti economici, i programmi unionisti e sovranisti
non spendono ancora una parola sulle politiche di accoglienza (salvo prevedere
sanzioni che non accettano i ricollocamenti), sulla necessità di una difesa e di un
esercito unico, sulla costituzione di un Fbi europeo, fondamentale per combattere il
terrorismo internazionale. Inutile chiedere programmi per rafforzare la concorrenza,
affrontare la riduzione del lavoro tradizionale, combattere i nuovi monopoli digitali e
l’insicurezza derivante dalla globalizzazione. Manca totalmente una strategia. Sia tra

le fila di chi si aggrappa al Manifesto di Ventotene, bibbia europeista diventata ormai
simulacro dell’Unione che non fu, sia tra chi vorrebbe invece il ritorno delle frontiere
e delle monete nazionali, senza specificare come, quando e perché.

A parole si vuole cambiare tutto. Nei fatti si lavora perché nulla si modifichi. Se si va
avanti così, tra proclami e silenzi, vincerà il gattopardo europeo. E il suo volto è
quello di un’ineffabile burocrate di Bruxelles.