(Dal blog di Roberto Sommella su Huffington Post)

A dispetto di quanto si possa pensare, la Commissione europea e l’Italia si fronteggiano sui conti pubblici come se fossero due tigri, ma di cartapesta. Ruggiscono l’una contro l’altra per pochi miliardi di scostamento nella manovra, a suon di procedure d’infrazione, multe e ‘me ne frego’, ma in fondo non stanno affrontando i veri problemi che rischiano davvero di far implodere l’Europa e di bloccare in recessione il Belpaese.  Prendiamo la cecità ormai acclarata dei programmi di austerity imposti dalla troika dal fallimento della Lehman Brothers adoggi. Questa ricetta di lacrime e sangue e compiti a casa è stata del tutto inefficace e lo dimostra in pieno il caso della Grecia. A fronte di 288 miliardi di euro ricevuti e scontate le varie responsabilità – dei governi di Atene e delle banche francesi e tedesche – questi crediti sono andati per il 90% a ripianare le perdite degli istituti di credito. Il paese è rimasto nel l’euro ma negli ultimi sette anni i finanziamenti pubblici negli ospedali si sono dimezzati, le malattie psichiatriche sono raddoppiate, il tasso dei senza tetto si è quadruplicato e persino i furti di elettricità sono aumentati del 1000%, con la disoccupazione rimasta al 24%. La fotografia impietosa del report del Consiglio d’Europa pone una domanda a tutta l’Ue: ne è valsa la pena “salvare” la Grecia? Non facciamoci influenzare dal perfetto stato della capitale ellenica, dalla pulizia del suo centro e dalla luminosità affascinante dell’aeropago sotto l’Acropoli (molto megliodi altre capitali che non sono state coinvolte in un default finanziario, ad esempio Roma): fuori da Atene, la situazione di molte centinaia di migliaia di greci è pessima. Questa cura da cavallo e gli esiti di essa sono la più grande vergogna di cui si è macchiato il governo europeo e rappresenta una delle cause principali del sovranismo.  Possibile che oggi il problema dell’Europa sia invece il tappeto deficit-Pil italiano al 2,4% invece che all’ 1,6%? Jean Claude Juncker e compagni hanno messo nel mirino non la legge di bilancio di Roma ma il governo italiano stesso, perché temono che l’esperienza tragica del paese guidato da Alexis Tsipras possa provocare tante altre Brexit, a cominciare proprio da noi. Sicché il problema è politico, non ragionieristico.    Passando all’Italia il discorso è analogo. Pensare che il paese non cresca per colpa della gabbia sui conti pubblici è un falso mito. Il paese non cresce per l’altissima evasione fiscale, che insieme alla morsa della lunghezza dei processi (sette anni e mezzo per avere una sentenza definitiva) e del peso della burocrazia, hanno fatto sì che il reddito pro capite oggi sia ancor indietro al livello del 1999 e i costi di produzione siano invece aumentati del 30% rispetto al 2001. Il tutto nell’illusione che un euro di spesa pubblica in più generi un euro di crescita in più, mentre invece tutti gli studi sostengono che si fermi alla metà, aumentando per il resto nuovo indebitamento. Risultato: il debito pubblico è cresciuto di 500 miliardi di euro in termini assoluti da quando è nata la moneta unica ma non deve ad essa il suo boom ma piuttosto ai suddetti vizi capitali endogeni.  Pensare perciò che il braccio di ferro con Bruxelles, quando arriveremo al prossimo 13 novembre e l’esecutivo dovrà indicare se vuole cambiare la direzione di marcia, sia lo show-down decisivo significa non aver capito quali sono invece i veri problemi e non avere ben chiaro nemmeno quali sono i nostri punti di forza. Che, in breve, si possono riassumere così: l’Italia è un paese ricco con uno Stato povero. È ricco perché ormai il risparmio complessivo tra beni mobili, conti correnti e immobili è arrivato a quota 10.000 miliardi di euro. È ricco perché la sua bilancia dei pagamenti è comunque solida come quella commerciale. È ricco perché l’export macina record e ha raggiunto un surplus di 448 miliardi di euro. Delle debolezze, il debito pubblico, arrivato a ben oltre il doppio del Pil, illustra plasticamente quante politiche economiche di potrebbero fare se non si dovessero pagare ogni anno una settantina di miliardi di solo interessi. Per intendersi, più o meno quanto costa la sola istruzione in dodici mesi.   Da questa descrizione sommaria emerge dunque come lo scontro tra Roma e Bruxelles sia in realtà una partita di poker elettorale, dove entrambi i giocatori sanno che in fondo le carte in mano, quelle sovraniste da un lato, e quelle unioniste dall’altro, nascondono un bluff. Che i problemi dell’Europa e dell’Italia si risolvano facendo rispettare i vincoli di Maastricht, invece di spendere finalmente un bel po’ di soldi del bilancio comunitario per le fasce deboli, e fregandosene di quei limiti Ue, piuttosto che tagliare senza pietà debito e evasione fiscale.  Entrambe le parti giocano comunque questa ultima mano pensando di vincere.  Se prevarrà la Commissione e dunque il prossimo 14 novembre, a procedura d’infrazione avviata, i mercati penalizzeranno l’Italia e faranno salire lo spread sopra quota 300, ci sarà una tempesta preannunciata dagli esiti imprevedibili per noi. Ma se sarà piuttosto calma piatta, nonostante il cartellino giallo di Bruxelles ai conti di Roma, il governo gialloverde di Giuseppe Conte avrà dimostrato che il vincolo del 3% è ormai solo un simulacro dei patti comunitari. In un caso e nell’altro non si saranno comunque affrontati i veri nodi da sciogliere per avere un’Europa e un’Italia più giuste e più eque. Sarà stata solo un’inutile partita di poker.