Presentazione libro “Gli Arrabbiati” di Roberto Sommella
Roma, lunedì 5 novembre 2018

Antonio Tajani
Presidente del Parlamento europeo

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Nel suo ultimo libro Roberto Sommella affronta un tema centrale per l’Europa e per la politica: il sentimento di rabbia che si sta diffondendo in buona parte dell’Occidente. Questo sentimento affonda le sue radici nel malcontento, non solo dei più deboli e degli esclusi; ma dello stesso ceto medio, inquieto e spaventato dal timore di poter scivolare sempre più indietro. Ad alimentare la rabbia e i venditori di illusioni, vi è la percezione di una politica e di un’Unione europea incapaci di fornire risposte efficaci a problemi come disoccupazione, sicurezza o immigrazione. Le istituzioni europee appaiono prigioniere di burocrazie arroganti e autoreferenziali, mentre molti politici non
hanno una vera strategia, concentrati solo sul consenso immediato, sui likes e sui followers.

Muri, frontiere, nazionalismi, appaiono “antidoti rassicuranti” contro una globalizzazione che sfugge al controllo dei cittadini. Trump, la Brexit, l’emergere dei sovranismi autoritari, il populismo dilagante, sono l’espressione di questo malessere. Ma queste ricette si rivelano velleitarie all’esame della realtà. Per rispondere a sfide di portata epocale, come la rivoluzione tecnologica, l’occupazione giovanile, i flussi migratori dall’Africa o il cambiamento climatico, serve invece la capacità degli Stati Ue di lavorare insieme. E, dunque, un’Europa più efficace, più politica, più vicina alle preoccupazioni e alle aspettative di 500 milioni di europei.

L’Unione com’è oggi non va. Ma distruggerla, buttando via alcune delle conquiste più preziose della nostra storia, sarebbe un grave errore. Dobbiamo, invece, lavorare per avviare profondi cambiamenti, senza i quali l’edifico europeo rischia di crollare sotto il peso della delusione dei nostri cittadini.

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Siamo ancora in tempo per farlo. L’ultimo Eurobarometro del Parlamento europeo indica che un numero senza precedenti di cittadini dal 1987, pensa che l’appartenenza all’Ue sia positiva. Gli stessi italiani, oggi non certo tra i più euro entusiasti, considerano un errore lasciare l’Ue e l’euro: solo il 23% voterebbe per uscire dall’Ue e meno di 1/3 vuole rinunciare all’Euro.
La maggioranza degli europei è consapevole che la nostra Unione rappresenta una storia di successo, che ci ha permesso di risorgere dalle devastazioni causate dai nazionalismi e dai conflitti mondiali. L’Unione ci ha portato libertà, pace e prosperità, democrazie basate sullo Stato di diritto; frontiere aperte, libera circolazione per persone, merci e capitali. Statisti come De Gasperi, Schuman, Adenaur, Spaak, Monnet, Kohl, Mitterand o Gonzales, hanno saputo costruire sulla fiducia, sull’ascolto e sull’amicizia reciproca. E’ anche grazie a loro se – dal 1957 al 2007 – i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione europea, e se la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro
volte, con una riduzione delle disuguaglianze che non ha eguali nella storia. Gli ultimi 10 anni di crisi, tuttavia, hanno frenato questo processo virtuoso. E’ venuto meno quello spirito di solidarietà tra Paesi, vero motore del processo d’integrazione.

Le nuove classi dirigenti non si sono mostrate all’altezza delle responsabilità. Gli interessi elettorali sono stati anteposti, in maniera sistematica, alla visione d’insieme.
A causa di questa scarsa lungimiranza, la crisi innescata dai mutui subprime USA, ha colpito le nostre banche e i debiti sovrani, con un impatto, per alcuni Paesi, equiparabile a quello di una guerra. L’Italia ha perso 1/4 della sua base manifatturiera e 1/3 degli investimenti, tornando al livello di PIL degli anni ‘90. In molti Stati membri i salari reali sono fermi ormai da 10 anni. Si sta allargando la forbice tra i ricchi e poveri, e tra regioni arretrate e sviluppate. L’80% della nuova
ricchezza va al 15% della popolazione più agiata.

Questa crescita asimmetrica non crea sufficienti opportunità di lavoro, specie per i giovani. Per la prima volta da decenni, le nuove generazioni hanno prospettive peggiori dei propri genitori. Oggi, 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. 118 milioni – il 24% della nostra popolazione – sono a rischio povertà o esclusione sociale. L’economia globale ha seguito un trend analogo. Rivoluzione tecnologica, libera circolazione dei capitali, mercati sempre più aperti, hanno senz’altro favorito

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crescita e competitività. Ma hanno anche creato una concorrenza al ribasso su condizioni di lavoro, fisco o standard ambientali.
Flussi migratori incontrollati e manodopera a basso costo hanno penalizzano i più deboli. Gli stessi che, nelle periferie, vivono a contatto con i nuovi immigrati che stentano ad integrarsi. Luoghi di degrado sociale, dove la frustrazione e il senso d’esclusione si mescola e si alimenta con quella dei nuovi arrivati. La paura porta a rinchiudersi, al rigetto del modello di società aperta promosso dall’Unione. Un modello percepito come elitario e distante, capace di portare benefici solo a pochi. Qui vanno cercate le ragioni della rabbia, il rigetto del globalismo, la ricerca della protezione e aiuto da parte delle nazioni. Se l’Unione vuole sopravvivere, deve saper ascoltare la richiesta di aiuto che arriva dai più deboli, da quelli che sono rimasti indietro, dai perdenti di una globalizzazione spesso senza regole.
L’Unione deve riproporre con forza quello che è stato il suo modello vincente: un’economia sociale di mercato, dove il mercato non è fine a se stesso, ma il mezzo per creare lavoro e opportunità per tutti e distribuire benessere. Chi propone di rafforzare la nostra sovranità e promuovere gli interessi italiani rompendo i legami con l’Unione, vende illusioni. Nessuno Stato europeo può competere da solo con Usa, Cina, Russia o India. Solo esercitando insieme, a livello Ue, una parte della sovranità nazionale, possiamo davvero proteggere i cittadini nella realtà sempre più complessa del mondo globale. Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, stare nel mercato unico ci consente di esportare 250 miliardi di beni l’anno, con avanzi straordinari delle nostre export. Chi vuole farci ritornare nel recinto delle frontiere statali, racconta favole. Chi indica nella costruzione europea la causa del nostro malessere, sbaglia bersaglio. Al contrario, l’Unione è parte della soluzione. Con la stessa onestà, dobbiamo dare atto a chi ci critica che quest’Unione è lungi dall’essere efficace. Solo un’Europa diversa, più politica, più democratica, più solidale, può riavvicinare i cittadini alle sue istituzioni. Detto questo, l’Italia deve contare di più in Europa. Non possiamo lamentarci se siamo assenti o impreparati quando si tratta di prendere decisioni importanti a Bruxelles. Non mi riferisco semplicemente ai vertici dei capi di Stato e di governo. Mi riferisco ad una presenza costante, strategica e capace, su ogni singolo dossier. Niente di più o di meno di quello che, da sempre, fanno tedeschi e francesi. Questo libro non poteva uscire in maniera più tempestiva, a pochi mesi dalle elezioni del prossimo Parlamento europeo.

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Nella campagna elettorale si confronteranno due idee molto diverse del nostro futuro. Da un lato, chi vuole illuderci che tornare allo Stato nazione possa davvero darci maggiore protezione; dall’altro, chi crede che solo una collaborazione più efficace nel quadro di un’Unione profondamente rinnovata e più democratica, possa aiutare davvero i cittadini. Mai come oggi sarà, importante fare la scelta giusta.
Dall’inizio del mio mandato come Presidente del Parlamento europeo ho già accolto a Strasburgo 11 capi di Stato e di governo europei, invitati per una serie di dibattiti in Plenaria sul futuro del progetto europeo. Anche questo vostro dibattito, oggi – in occasione dell’uscita del libro di Roberto Sommella – rappresenta l’occasione preziosa di compiere un’ulteriore riflessione sull’avvenire dell’Unione.

Un caro saluto,
Antonio Tajani