Il testo qui pubblicato, per gentile concessione dell’editore, è tratto dal libro “Stendhal in bicicletta” (Il Sole 24 ORE, 2023, €16,90) ed è pubblicato anche sul Numero speciale del 16 dicembre 2023 dell’edizione cartacea La Nuova Europa. Il volume raccoglie racconti di viaggi su due ruote che sono veri e propri itinerari geografici e culturali guidati da una sana passione sportiva e da un genuino sentimento per il paesaggio e la scoperta. 

 

Un viaggio in bici è tante cose insieme. È un’immersione profonda nel territorio che andiamo a visitare. È fatica, divertimento, adrenalina, avventura, contemplazione, cultura. È ricarica e rigenerazione. È un mezzo di riconciliazione con il mondo. È amicizia. È sballo. È gioco. È euforia. 

Ogni volta che saliamo in sella per un cicloviaggio, la bici ci regala tutto questo. È la macchina della felicità, die Gluecksmaschine, come dicono i tedeschi. Forse i medici e i neurologi sapranno spiegare in termini scientifici perché mai una pedalata sia accompagnata e seguita da questo senso di benessere, di pienezza, di buonumore; quale mix di ormoni, enzimi e altri agenti biochimici provochi nel nostro sistema nervoso lo stato di appagamento che un ciclista prova a fine giro. Sarà il rilascio della dopamina; saranno le endorfine. Sta di fatto che di ritorno a casa, al momento di riporre la bici, inevitabilmente si pone la domanda: “Quando si riparte?”. “E per andare dove?”. Sì, perché la bici genera assuefazione e dipendenza. Una gradevole dipendenza, alla quale volentieri ci si abbandona, perché migliora – e di molto – la qualità della vita. La stanchezza? Passa con una dormita. La mattina dopo ci si sveglia carichi, pronti ad affrontare il mondo.  E in un angolo del cervello si comincia ad elaborare l’uscita successiva. 

A chi non pratica il cicloturismo queste considerazioni potranno sembrare strampalate. Ma chi va in bici conosce bene queste sensazioni. E a scanso di equivoci è utile chiarire qual è la chiave di accesso a questo mondo. Non è la bici da corsa. Non è il ciclismo agonistico del Giro d’Italia, del Tour de France o della Vuelta. Al contrario, il cicloviaggio è ciclismo lento, ciclismo contemplativo, quello che vorrebbe dilatare all’infinito il tempo di una discesa panoramica, perché quella discesa è godimento allo stato puro, che regala attimi di felicità.  

Nel cicloturismo velocità, watt, potenza sono fattori irrilevanti. Il ciclismo da corsa, con i suoi stress e le sue ansie da prestazione, è distante anni luce. Appare, addirittura, come una declinazione paradossale del ciclismo, perché la bici, per definizione, non può essere un bolide né un razzo, ma nasce come mezzo di trasporto lento. Di conseguenza il concetto stesso di bici da corsa risulta essere un ossimoro, una contraddizione in termini. Chi vuole correre, non va in bici; semplicemente sceglie un altro mezzo, magari un jet supersonico, uno shuttle della Nasa o di Elon Musk.   

Non ci sono sponsor nel cicloturismo né finanza, carovane tv, elicotteri, star system, cocktail illeciti per aumentare le prestazioni né podi su cui salire con le Magnum di champagne da agitare in segno di vittoria. E non è neanche il mondo del cosiddetto ciclismo dilettantistico, che riproduce in piccolo le dinamiche dell’agonismo internazionale a cominciare dalla piaga del doping. Non c’è Gran Fondo o altra garetta locale di paese dove non circolino prodotti venduti sottobanco, propinati da medici e sedicenti allenatori senza scrupoli.  

Unico doping ammesso le tagliatelle all’uovo 

L’unica forma di doping ammessa nel cicloturismo sono le tagliatelle all’uovo. È un mondo fatto di amici, di chiacchiere, di gente che vuole divertirsi e stare bene insieme; ma anche di viaggiatori solitari o di famiglie che vogliono vedere un po’ di mondo, educando i propri figli al rispetto della natura.  

È popolato da un’umanità varia, d’ogni forma e d’ogni età, compresi anziani e ultraottantenni. Sì, ultraottantenni, che ancora hanno la forza e la voglia di godersi la vita. Perché fra i tanti pregi del cicloturismo lento c’è anche quello di poter essere praticato in età molto avanzata.  Rientra tra le attività motorie leggere, consigliate dai medici per preservare la salute, contrastare i processi degenerativi dell’invecchiamento, rafforzare il sistema immunitario, mantenere il più a lungo possibile la funzionalità delle articolazioni, dell’apparato motorio, di quello cardiocircolatorio e respiratorio ma anche dei riflessi e dell’equilibrio.  

La Bike Therapy è un toccasana per giovani e diversamente giovani. Già, perché fin quando si va in bici, non ci si può considerare vecchi. Il fanciullino che è in ognuno di noi continua a giocare e a divertirsi e nel far questo ci tiene giovani anche quando l’anagrafe certifica che l’involucro in cui siamo avvolti porta i segni di una lunga storia. La vecchiaia inizia quando la bici finisce appesa a un chiodo in garage.  

Non è mai troppo tardi 

Per giunta il cicloturismo lento è una di quelle attività per le quali non è mai troppo tardi. Si può cominciare anche quando il tempo ha scavato i suoi solchi sulla nostra fronte. L’importante è la gradualità. Per chiunque si avvicini al cicloturismo, a prescindere dall’età, la regola aurea è che il divertimento deve sempre prevalere sulla fatica. Se la fatica prevale sul divertimento, vuol dire che stiamo sbagliando qualcosa. In quel caso il dosaggio è eccessivo e va ridotto. Naturalmente la soglia oltre la quale il divertimento lascia il posto alla fatica è una soglia mobile. Si sposta verso l’alto, mano a mano che aumenta l’allenamento. E l’allenamento a sua volta dipende da vari fattori, tra cui il divertimento e il tempo. Se in bici ci si diverte, ci si prende gusto. Poco alla volta si pedala di più, più a lungo, per distanze maggiori, con più dislivello. Non è uno sforzo di autodisciplina. Non c’è autocostrizione. Viene da sé. 

La prima uscita sarà in pianura e per pochi chilometri, anche solo cinque o sei. Per chi non sale in bici da quando era ragazzino, già un’uscita di questo tipo è sufficiente per provare stanchezza. Ma se tornando a casa si porta con sé oltre che la stanchezza anche il divertimento, allora dopo uno o due giorni di riposo si potrà affrontare un’uscita un po’ più impegnativa. E così via. Attenendosi a questa regola aurea, nel giro di poche settimane il corpo si abitua, prende dimestichezza con la sella, con i pedali, con la postura e il manubrio. Si riattivano muscoli e capacità rimasti inattivi per decenni. Nel giro di un paio di mesi si arriva facilmente a percorrere i 50, i 60 chilometri. E se ci si prende gusto, si comincia a guardare con interesse anche alle salite. Sì, perché le salite sono bellissime. Sono il sale della bicicletta. Danno una grandissima soddisfazione. Appagano. Anche perché, arrivati in cima alla salita, la strada “spiana” e arriva il momento di godersi la meritata discesa.    

Determinante ai fini dell’allenamento è il tempo. Quanto più tempo si può dedicare alla bicicletta, tanto più aumenta l’allenamento. È per questo che non di rado i padri in pensione sono più forti dei figli che lavorano: perché hanno più tempo per allenarsi. Il fattore allenamento è ancora più importante dell’età. E se aumenta l’allenamento, si alza di conseguenza la soglia oltre la quale il divertimento diventa fatica. Dunque si possono fare più cose. Dunque ci si diverte di più. Dunque si è sempre più allenati.  È così che nasce la dipendenza dalla bici.  

Alla larga da asfalto e motori  

Quando si pianifica un cicloviaggio, è bene scegliere con cura l’itinerario. Dev’essere remunerativo. Deve farci tornare a casa più ricchi di quando siamo partiti. Lasciate perdere le strade statali, le arterie a scorrimento veloce, dove automobili, camion e Tir sfrecciano a 100 e passa all’ora, sfiorando pericolosamente l’estremità sinistra del manubrio e rischiando di travolgere il ciclista anche soltanto per lo spostamento della massa d’aria. Tenetevi quanto più possibile su strade e stradine della viabilità secondaria, a bassissima densità di traffico. Meglio ancora: tenetevi alla larga dalle strade asfaltate. Per le vostre pedalate scegliete piuttosto piste ciclabili (quando e dove ci sono), strade bianche, carrarecce, sterrati, argini, strade vicinali e poderali. Se avete la bici adatta e le capacità tecniche di guida, concedetevi anche le mulattiere.  

Lì, nel silenzio, al riparo dal rombo dei motori, inizia l’immersione nel territorio. Nelle orecchie il fruscio del vento. Nei polmoni l’aria fresca e profumata di un bosco, di una pineta, di un sentiero di montagna o sul mare. Negli occhi il verde dei prati, l’azzurro del cielo, i colori della campagna, delle rocce, l’effetto ricreativo della messa a fuoco all’infinito dopo giorni in cui lo sguardo è stato costretto negli spazi angusti dei quattro muri di un ufficio o di casa.  

Un cicloviaggio è per sempre  

Apprezzate l’odore della cacca delle mucche e dei cavalli. Imparate a leggere il terreno, a cogliere i segni del passaggio degli animali. Godetevi il cinguettio degli uccelli. Ammirate le farfalle. Evitate di schiacciare gli insetti sotto i copertoni delle vostre ruote. Abbiate rispetto per i luoghi che attraversate. Non lasciate alcun segno del vostro transito, neanche una buccia di mandarino. Fermatevi a fare merenda con i fichi, le more o i corbezzoli che trovate sul vostro cammino. È così che entrate nella disposizione d’animo giusta per assorbire il territorio, acquisirlo e sedimentarlo nella memoria. Un cicloviaggio è per sempre. Le immagini si archiviano indelebilmente nel cervello. Se un giorno, anche a distanza di vent’anni, tornerete a pedalare su quel sentiero, vi ricorderete nitidamente di ogni metro percorso. 

Siate curiosi. Sforzatevi di ascoltare la storia che il territorio vi racconta. Provate a decriptare i segni grandi e piccoli che testimoniano il passaggio delle generazioni che vi hanno preceduto nei secoli e nei millenni. Immaginate come saranno quei luoghi tra cento o tra mille anni. Depurate il paesaggio dai vincoli dell’istante nel fluire del tempo. In questa dimensione temporale dilatata, in cui passato e presente coesistono, vi appariranno, come in una visione, i fenici, gli etruschi, i greci, i cartaginesi, i romani, le orde dei goti, dei visigoti e dei vandali, gli eremiti, i monaci del Medio Evo, i pellegrini, i mercanti, i papi, i lanzichenecchi, gli eserciti dei conquistatori e giù a scendere fino al mondo di oggi.  

Paesaggi narranti da ascoltare in sella alla bici  

Tutta l’Italia è un immenso paesaggio storico, segnato e modellato dalla mano dell’uomo nel corso dei millenni. Natura e storia si compenetrano fino a confondersi l’una nell’altra al punto che spesso diventa difficile distinguere che cosa è prodotto dalla natura e che cosa, invece, è frutto dell’intervento umano. Non c’è chilometro quadrato del nostro Paese che non possa raccontare una storia plurimillenaria.  

Il nostro è un paesaggio narrante. E la bici è lo strumento ideale per mettersi in modalità di ascolto. Un cicloviaggio in Italia è sempre anche un’esperienza culturale profonda. Che si faccia una sgambatina alle porte di Roma, nella valle dell’Aniene o sull’Appia antica fino ai giardini papali di Castel Gandolfo, lungo le coste della Sicilia, nella Tuscia o nei Campi Flegrei, ci imbatteremo sempre, pedalando, in un patrimonio archeologico e storico-artistico sbalorditivo, unico al mondo. Potrà essere trascurato, abbandonato, offeso, talvolta addirittura deturpato. Ma pur sempre sbalorditivo. Questa è la cifra che contraddistingue il cicloturismo nel Belpaese rispetto ad altre destinazioni.  

Lo sgomento e l’estasi 

Mettete in conto, però, oltre all’estasi anche lo sgomento e l’indignazione. Talvolta, a fronte di tanta incuria e tanto spreco, sarà difficile trattenere la collera. Tesori che altrove sarebbero tirati a lucido e presentati con i guanti bianchi su un vassoio d’argento giacciono da noi negletti e dimenticati. A volte semplicemente coperti dai rovi; a volte addirittura fatti a pezzi dagli stessi locali sotto i cingoli dei trattori e poi nascosti, affinché le Soprintendenze, percepite come un nemico, non vedano e non intervengano. Contribuiscono allo sdegno le mille e passa discariche abusive, grandi e piccole, sparse ovunque nelle macchie nostrane e nelle scarpate, gli incontri ravvicinati con carcasse di lavatrici e televisori, con copertoni esanimi, con le file interminabili di rifiuti gettati ai bordi delle strade. Così come i cartelli perforati dai colpi d’arma da fuoco o, peggio ancora, le costruzioni obbrobriose, spesso incompiute, e gli scheletri in cemento armato abbandonati e fatiscenti, segno di un’inciviltà diffusa. È l’accanimento di un popolo contro il proprio territorio, dunque contro se stesso e i propri figli, come se qualcuno si mettesse di buona lena a devastare casa sua, inconsapevole dei danni che arreca a sé e a tutta la comunità. Non è così, per fortuna, in tutto il Paese. Ma è un’esperienza fin troppo comune per chi batte l’Italia palmo a palmo in sella a una bici (e non solo). 

Unico antidoto allo sdegno per la mancata valorizzazione dei nostri scrigni è la considerazione consolatoria che in assenza, ad oggi, di qualsiasi forma di rispetto e di manutenzione gli stessi rovi, in definitiva, preservano e tramandano il patrimonio alle generazioni future: sono una forma, sia pure impropria, di conservazione. Consolatoria è anche l’idea che la valorizzazione, se male interpretata, può essa stessa generare degrado e infierire sul territorio, snaturando luoghi-santuario con parcheggi, venditori ambulanti di bibite, hot-dog e paccottiglia varia. Dunque, se tutto resta com’è, alla fine, non è poi il peggiore dei mali.    

Il bello come porta della trascendenza 

Ma il sentimento di gran lunga prevalente è la gratitudine. Gratitudine per la bellezza soverchiante del paesaggio che ci circonda, per questa straordinaria ricchezza che fa dell’Italia il Belpaese, anche se – a ben vedere e fuor di retorica – sarebbe più appropriato parlare invece di Malpaese, un bellissimo Malpaese, che ci fa provare al tempo stesso indignazione e gratitudine.  

Pedalare, però, è un rimedio che dà sollievo anche dal Malpaese in tutte le sue manifestazioni più deteriori. È una carezza per l’anima, una coccola, che ricarica le batterie, ci rafforza e ci protegge dalle ingiurie del mondo esterno. Nelle avversità della vita può fornire una tecnica di sopravvivenza. Così, in attesa di salire in sella, diventa possibile resistere in apnea fino al momento in cui, inforcata la bici, troveremo il modo di riconciliarci col mondo.   

La gratitudine, si diceva. Già, ma gratitudine verso chi? Verso che cosa?  Per un credente la risposta è facile: verso Dio, verso il Creatore, sommo artefice delle meraviglie del Creato, che ci ha donato anche la sensibilità per godere del bello; al cicloturista ha dato, inoltre, la forza e la voglia per apprezzarlo attraverso la bici. Papa Ratzinger, teologo raffinato, parlava della “via pulchritudinis”, la “via della bellezza” come mezzo di avvicinamento al Signore, fonte di beatitudine.  

Per un non credente, invece, le cose si complicano un po’. Ma dal punto di vista sostanziale, in una prospettiva rigorosamente laica, le cose non stanno poi in modo così diverso. Quel senso di beatitudine non è certo appannaggio esclusivo dei credenti.  La stessa esperienza di pienezza e di perfezione è accessibile in egual modo anche ai più accaniti fautori di Voltaire, refrattari ai dogmi della fede.  

La fruizione del bello innesca nella coscienza meccanismi che possono portare alla perdita temporanea del sé. Nella contemplazione l’io si dissolve fino ad annientare i suoi stessi limiti spazio-temporali. Soggetto e oggetto vengono così ad identificarsi in un absolutus, sciolto sia pure solo per pochi istanti dai vincoli fisici che ci zavorrano e ci ancorano qui ed ora, hic et nunc, nello spazio e nel tempo. È uno stato di momentanea incoscienza che ci proietta altrove, nel trascendente, grazie ad un’escursione di pochi millisecondi dal finito all’infinito. È un’esperienza variamente descritta come estasi o come felicità. Forse è proprio questo il fenomeno che va anche sotto la definizione di “sindrome di Stendhal”, lo smarrimento di sé che si può provare nella contemplazione del bello. È questione di pochi attimi. Poi la forza di gravità ci riporta bruscamente nell’io e al ritorno in sé.  

In bici questa esperienza è assai frequente soprattutto di fronte alla magnificenza di paesaggi comunemente definiti “mozzafiato”. E se avete la fortuna di imbattervi in questo stato indefinito tra coscienza e incoscienza, godetevelo. Potrete giusto cogliere l’attimo. Non di più. Perché un istante dopo dovrete fare attenzione a non perdere il controllo del manubrio. Altrimenti il rientro in sé sarà non solo brusco, ma anche doloroso, mangiando la polvere faccia a terra! 

 

 

Nota sull’autore

Manlio Pisu, giornalista, romano, ha lavorato in Italia e all’estero per alcune delle principali testate italiane, seguendo in particolare i temi dell’integrazione economico-finanziaria europea. La sua vita professionale è a cavallo tra l’informazione e la comunicazione finanziaria. La bici e il cicloturismo sono da anni la sua passione e il suo “caricabatteria”. Nel poco tempo libero si diletta a battere palmo a palmo il Belpaese in sella alla bici sempre alla ricerca di itinerari nuovi e mozzafiato. Il sogno nel cassetto è un’Italia tutta percorribile in bici con una rete di piste ciclabili all’altezza dei più evoluti standard internazionali.