Identità è costruzione: non è una sfera compatta e immobile, va continuamente negoziata con il tempo e con gli altri; ciò significa che la sua formazione è possibile grazie a processi di alterazione, ibridazione e migrazione. Un’identità che non si disponga ad un dialogo con l’alterità, ad un patteggiamento, ad una negoziazione, ad un compromesso si vota all’isolamento, si dirige verso un vicolo cieco. Questa sfida necessita di una piattaforma politico-istituzionale duttile e non dogmatica, che certo non può essere incarnata dal mito dello stato-nazione, ovvero la forma di organizzazione politica, culturale e sociale meno appropriata alla creazione di pluralità. Esso verte sulla sacralizzazione dei confini, su una eterna celebrazione del “non passa lo straniero”, sulla ricerca permanente di tutto ciò che si vorrebbe immutabile e scolpito nel tempo. In questo quadro, le sfide della contemporaneità possono davvero trovare una risposta in un diritto di primazia ancorato al sangue e al suolo? Il superamento di tale binomio avrebbe dovuto essere garantito dalla nascita di un’Europa in grado di ergersi quale alternativa alle macerie materiali e ideologiche della Seconda guerra mondiale e dei totalitarismi novecenteschi. Avrebbe, insomma, dovuto costituire la manifestazione storica di una scommessa tanto complessa quanto necessaria. La politica non è, però, l’arte dell’improvvisazione e lo stallo nel processo di integrazione europea è il risultato della mancata capacità da parte della classe dirigente europea di comprendere l’importanza di spiegare ai cittadini la necessità storica e le potenzialità dei ponti e non dei muri. Questa mancanza di dialogo è l’aspetto più emblematico della crisi delle democrazie; ma una politica che voglia incanalarsi in un percorso democratico è necessariamente mediazione, rappresentanza, analisi della complessità, non riduzione e semplificazione. Il ripiegamento su se stesso che anima l’Occidente nasce dall’incrinarsi del rapporto di fiducia tra rappresentante e rappresentato ovvero dalla crisi del concetto di delega, il fondamento della democrazia figlia del parlamentarismo moderno. Rinunciare alla delega significa, infatti, rinunciare alla propria capacità di incidere sulla realtà e la mediazione è la sola forma attraverso la quale si possa esercitare il proprio ruolo nella comunità, l’unico modo in cui si possa essere liberi. Negli ultimi due secoli la richiesta di libertà si è sempre tradotta in una richiesta di informazione: “conoscere per deliberare” è la premessa ad ogni forma di partecipazione. Ma oggi l’incontrovertibile liberalizzazione dell’accesso alla conoscenza ci ha davvero concesso di incrementare la nostra facoltà di prendere parte ai processi decisionali e, dunque, di essere cittadini?

“Populismi, identità europea, crisi della democrazia in occidente”: questi i temi che alimenteranno il confronto dell’ottava edizione del “Borgo dei filosofi” da lunedì 20 a sabato 25 novembre al Carcere Borbonico di Avellino. Il programma qui.