Un pesce di nome Brexit. E se alla fine l’uscita della Gran Bretagna si trasformasse in una riedizione del celebre film dei Monty Phiton? La sensazione e’ che nessuno dei contendenti al di qua e al di la’ della Manica creda davvero fino un fondo che l’addio degli inglesi sia possibile e soprattutto rapido.
E’ bastata una trentina di minuti di vertice, ai capi di Stato e di governo dei 27 paesi Ue (praticamente poco più di un minuto a testa) per adottare le linee guida del negoziato con il Regno Unito. Il documento, ha annunciato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk su Twitter, è stato adottato all’unanimità. “Un mandato politico solido ed equo dei 27 per i colloqui sulla Brexit è pronto”, ha commentato.
Prima della riunione il presidente della Commissione Jean Claude Juncker aveva però ammonito: “Anche io come Angela Merkel credo che Londa si fa delle illusioni”. Dal canto suo la cancelliera tedesca ha rimandato un messaggio alla Gran Bretagna: “Serve una buona relazione con il Regno Unito ma dobbiamo anche difendere i nostri interessi, e solo quando saranno decisi gli aspetti più importanti del divorzio potremo parlare del partenariato futuro”. In sostanza, pensava al futuro della sede londinese di Deutsche Bank.

Ma oltre le dichiarazioni, pensate che ci sia qualcuno a sapere davvero come finirà? La Nuova Europa ci prova. Nell’epoca delle post-verità esiste infatti solo una certezza: il mondo è governato dalla finanza. E ai dettami della City e delle più grandi banche d’affari del pianeta si è dovuta inchinare persino Theresa May, che ha annunciato il clamoroso ritorno alle urne l’8 giugno prossimo, perché il parlamento britannico non  riesce a trovare un accordo su come condurre i negoziati sulla Brexit. A questo punto sono tre i dati di fatto, in uno scenario reso ancor più fragile dalle imminenti elezioni francesi dall’esito quanto mai incerto e a prescindere dal vertice europeo del 29 aprile.
Il primo è che la pur debole Europa, nell’avviare negoziati difficili con Londra, abbia fatto capire che Westminster e Downing Street avrebbero dovuto pagare qualcosa di più dei 60 miliardi di euro di contributi mancanti all’Unione Europea. In gioco c’è infatti l’agibilità comunitaria dell’intera macchina finanziaria della borsa inglese che una volta lasciata l’Ue si troverebbe senza nemmeno dei riferimenti normativi per stabilire come si regolano le transazioni oltre Manica. Il secondo punto da evidenziare è che in una fase di grande confusione globale nella pur antichissima democrazia parlamentare, quello che è stato deciso dal popolo con il referendum del 23 giugno 2016 fatica a prendere forma delle aule di rappresentanza. Si era capito quando per due volte la Camera dei Lords, l’organo non elettivo del parlamento inglese, aveva rimandato indietro all’House of Commons la ratifica della Brexit, chiedendo un approfondimento sui diritti di movimento dei cittadini europei, pensando in effetti a quello dei capitali; se ne è avuta una plastica conferma quando una May intimorita, chiusa nel suo gessato anni ottanta e intrappolata dalla sua incapacità politica, nemmeno fosse un Presidente del Consiglio italiano ai tempi dei governi balneari, ha dovuto ammettere che ‘’i partiti di Westminster non riescono a trovare un accordo sulla Brexit’’ e persino la Scozia torna ad invocare l’indipendenza e l’appartenenza all’Ue. Se a qualcuno non bastasse quando scritto sopra, la prova del nove dei motivi del passo indietro la troverà nella lenta emorragia verso le sedi europee pianificata dalle più grandi banche d’affari per evitare di restare isolate a Londra senza avere una sede legale a Berlino, Parigi o Milano. Basta chiedere a qualche italiano che ci lavora.
Il terzo elemento che deve essere considerato in questa clamorosa retromarcia – che comunque lascia aperta la porta di una Brexit nel 2018 – è il numero di accordi che i due negoziatori, Michel Barnier per Bruxelles e David Davis per la Gran Bretagna, avrebbero dovuto raggiungere prima di ratificare il divorzio, che probabilmente, come scritto già su queste colonne, si sarebbe tramutato in una sorta di unione civile finanziaria. Qualcuno ha stimato in oltre trecento il numero di punti dell’accordo di addio tra Londra e l’Unione, una montagna che alla luce di quanto accaduto a questo punto diventa l’Everest. Gli elettori britannici, tornando a votare, ci metteranno una pezza e chiederanno ai loro rappresentanti di restare invece nell’Unione, come ha fatto intendere Tony Blair in un’intervista al Corriere della Sera?
Non è da escludere.
La morale di questa commedia che prende il sapore non sense del gruppo Monty Python, se l’era lasciata scappare un diplomatico del vecchio gabinetto, Gus O’Donnel, prima del referendum. ‘’La Groenlandia, popolazione di poco inferiore a Croydon”, città di circa 12.000 abitanti nella zona sud di Londra, “ha un problema col pesce e per un problema del genere ci sono voluti tre anni. Noi abbiamo molteplici problemi, E’ altamente improbabile che si possa risolvere tutto in due anni’’. Aveva ragione: oggi Londra e Bruxelles hanno sempre un problema col pesce, di nome Brexit.
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