Non è vero che si deve restare in Europa alle condizioni di Parigi e Berlino. Ridiscutere i Trattati si può fare e forse si deve, a patto che non si mettano in discussione quelli sull’euro, il mercato unico e la libertà di movimento. E a patto che si abbiano le idee chiare.
Rivedere il Fiscal Compact, prevedendo l’inserimento della golden rule, ovvero lo scomputo dal debito degli investimenti strutturali resta invece la cosa più importante, e un po’ devono essersene accorti anche grillini e leghisti se l’hanno inserita in fretta e furia nel programma di governo ultima versione; come importante resta considerare il debito consolidato, quello pubblico e quello privato, dove l’Italia salirebbe molto in graduatoria, visto il basso indebitamento delle famiglie. Una vecchia battaglia di Giulio Tremonti, ideologo a sua insaputa di molte prese di posizione del movimento Italy First.
Su tutto va però considerato il cammino, quanto meno difficile, di queste riforme. La navetta prevede una proposta da parte del paese interessato, una comunicazione della Commissione, il parere del Parlamento europeo e poi il voto del Consiglio europeo, sempre che non ci siano dei veti di altri partner. Non proprio una passeggiata.
Questo è l’obbligatorio preambolo per il governo Cinquestelle-Lega che sta nascendo, sulla base della versione definitiva del contratto notarile di cui si discute da giorni ma che alla fine sembra un copia-incolla edulcorato e doroteo, stilato solo per tranquillizzare il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E i paesi partner nell’Ue.
Sono già molte le reazioni negative nell’Ue alla nascita di un esecutivo sovranista in Italia, non ultime le paure espresse dai francesi per il suo impatto negativo nell’Eurozona. Ma per ora siamo ancora alle schermaglie iniziali, soltanto diplomatiche. Sul fronte dei mercati non c’è da spaventarsi più di tanto, non siamo alla guerra come nel 2011, anche se lo spread a 160 punti dovrebbe far riflettere. Il problema vero si porrà tra un anno, quando sarà finito il QE della Bce e i vertici comunitari risulteranno tutti cambiati, dopo le elezioni europee.
Le piazze finanziarie si scuotono e cadono per fatti imprevisti ma scontano quello che già si sa. E si sa che l’Italia è nei fatti meno europeista di prima del 4 marzo.
Quello che invece l’Italia sta imboccando, al di là dei calcoli mirabolanti (oltre 100 miliardi di euro) del costo delle altrettante mirabolanti e confuse promesse nel contratto di governo, è una selva se non oscura, quanto meno accidentata: per motivazioni, strategia e finalità.
Cosa debba essere davvero l’Italia nelle intenzioni di Luigi Di Maio e Matteo Salvini e del futuro premier, ancora non si sa. Sovranista e richiusa su stessa o ancora europeista, come lascia intendere l’accordo gialloverde, che addirittura nella sua ultima edulcorata versione prevede la “cittadinanza europea”. L’Italia deve tagliare o riprogrammare il suo debito pubblico? Deve spendere di più per abbassare le tasse ai ricchi, come inevitabilmente farebbe la Flat Tax, oppure si deve preoccupare dei disoccupati, dei pensionati al minimo, delle famiglie povere come vuole il Movimento? Deve continuare con l’accoglienza ai migranti o irrigidirsi fino ai respingimenti, vietati dal diritto internazionale, come ha ribadito la Corte europea dei diritti dell’uomo? Deve sedersi al tavolo della discussione sul budget comunitario, ponendo sul serio la sua uscita dall’Ue se non verranno richiamati all’ordine tutti i paesi che non accettano i ricollocamenti o deve, come al solito, urlare a Roma e restare in silenzio a Bruxelles per evitare che le si chieda subito una manovrina di rientro?
Sono solo alcuni interrogativi che nessun contratto di governo potrà mai sciogliere, ma solo una vera azione di governo. Intanto il mondo ci guarda. Noi non sappiamo come ci arriveremo e con quale livello di indebitamento alla fine della ricreazione del debito pubblico. Lo spread, arrivato a 160 con tanto di bazooka dell’Eurotower che congela il mercato dei titoli di stato, varrebbe almeno il doppio senza il paracadute di Mario Draghi. Questo è un aspetto fondamentale: non scordiamoci che dobbiamo per impegni con Bruxelles arrivare al pareggio di bilancio nel 2020 e che ogni misura una tantum, ad esempio un condono o una privatizzazione, non impattano sul deficit strutturale, che è poi quello che conta per il Fiscal Compact e il Six Pack. Quindi sono neutri. Come neutra è stata la reazione dei vertici comunitari alla notizia, resa nota dall’Huffington Post, che M5S e Lega avevano intenzione di chiedere, in una delle prime versioni dell’accordo di governo, la cancellazione di 250 miliardi di euro di debito alla Bce.
Una scalata dell’Everest senza bombole, poi smentita, che però inquieta solo per averla pensata.
Unico risultato di questa confusione progettuale che ammanta il nascituro esecutivo è creare confusione sui mercati che ci comprano 400 miliardi di debito all’anno in media, spaventare i risparmiatori e forse anche i propri elettori, che ai gazebo e in rete hanno giurato fedeltà alla causa Salvini-Di Maio.