La newsletter Marat di Francesco Maselli dedica un bell’approfondimento al maggio francese di 50 anni fa. Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore. 

 

Mercoledì 29 maggio 1968, Palais de Matignon, residenza del primo ministro Georges Pompidou, undici del mattino. Squilla il telefono, è il generale de Gaulle. E’ urgente, il generale detesta il telefono, in sei anni avrà chiamato Pompidou meno di dieci volte. De Gaulle ha la voce grave, molto stanca, spiega che ha rinviato il consiglio dei ministri al venerdì e che lascerà momentaneamente Parigi per Colombey-les-deux églises, la sua casa di campagna: “Ho bisogno di riflettere, di ritrovarmi, non posso restare qui, non riesco a dormire. Tornerò domani”. Pompidou cerca di convincerlo a rimanere nella capitale, con tutto quello che sta succedendo andare via da Parigi è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, prova a dire. Ma niente: “Non c’è ragione di preoccuparsi. Io sono vecchio, lei è giovane, lei è il futuro. Tornerò. Arrivederci, l’abbraccio”. Ma come l’abbraccio? De Gaulle non ha mai abbracciato nessuno, che è questa storia? Preoccupato, Pompidou chiama i suoi tre più stretti collaboratori: Michel Jobert, il direttore di gabinetto, Edouard Balladur, suo consigliere, e Jacques Chirac, giovane e ambizioso sottosegretario al Lavoro. Intanto de Gaulle va di fretta. Chiama sua moglie, Yvonne, ed entra in macchina, direzione l’eliporto di Issy-Les-Moulinaux, nella periferia sud ovest di Parigi. Fa avvertire anche i suoi figli e nipoti, che dovranno raggiungere un altro elicottero e attendere istruzioni.

Verso mezzogiorno la coppia presidenziale decolla, senza che la destinazione sia comunicata al pilota: “Vada verso est”, gli dice il generale, laconico. Dopo circa un’ora, l’elicottero si ferma a Saint-Diziers, fa rifornimento e riparte di nuovo. A quel punto il generale de Gaulle scrive finalmente su un bigliettino delle istruzioni, che passa a François Flohic, suo storico aiutante di campo, seduto sul sedile davanti, alla destra del pilota: “Dica al pilota di volare basso, per evitare i radar”. Sì, ma in che direzione, risponde Flohic. Baden-Baden, Germania, quartier generale delle truppe francesi nel paese.

Alle 14, a Matignon squilla di nuovo il telefono. Ed è di nuovo l’Eliseo, stavolta all’apparecchio è Bernard Tricot, segretario generale:

“Signor primo ministro, il generale De Gaulle non è mai atterrato a Colombey”,

silenzio imbarazzato,

“Ah. E dov’è?”,

“Non lo sappiamo signore”. Pompidou riattacca e si volta verso i suoi tre consiglieri: “De Gaulle è sparito”.

Cosa ha spinto il generale a lasciare Parigi senza avvertire nessuno? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro (vi avviso: questa puntata di Marat è molto lunga, ma non “scade”. Potete quindi metterla da parte e riprenderla quando volete).

Marzo 1968, sono passati quasi dieci anni dal ritorno del generale de Gaulle, il paese è stabile, il regime gollista è maturo, rodato, l’economia va a gonfie vele, il  trauma della guerra e dell’occupazione nazista è superato. Le cose vanno così bene che il debito pubblico è praticamente azzerato nel 1967, e si installa, dicono i giornali dell’epoca, una sorta di “routine della prosperità”. In qualche modo, “la Francia si annoia”, scrive il Monde del 15 marzo 1968.

Eppure c’è qualcuno che ne ha abbastanza di questa società di reduci, della formalità in famiglia e nelle istituzioni, della retorica dei padri che hanno fatto la resistenza. Sono gli studenti, i baby boomers, che vogliono liberarsi della cappa del potere gollista. Il 22 marzo, a Nanterre, un gruppo di universitari guidati dallo studente tedesco Daniel Cohn-Bendit, della facoltà di lettere, occupa la torre amministrativa dell’ateneo. L’azione è dimostrativa, dura poche ore, ma dà inizio a un movimento di contestazione che blocca l’università con scioperi e manifestazioni. Il 2 maggio, dopo l’occupazione dell’anfiteatro di Nanterre, interviene la polizia: gli studenti sono allontanati, la facoltà viene chiusa. La sera stessa, il tg delle 20 riporta distrattamente la notizia, il governo non è preoccupato da quello che sembra un semplice sfogo di un’università di periferia, Georges Pompidou parte regolarmente per il suo viaggio in Iran e in Afghanistan.

Il 3 maggio la situazione precipita. Gli studenti di Nanterre decidono di andare a Parigi, alla Sorbona, e organizzano una manifestazione nel grande cortile interno per protestare contro la chiusura della loro università e la convocazione di otto studenti, tra cui Cohn-Bendit, davanti al consiglio di disciplina. Di nuovo, la polizia decide di intervenire, e arresta più di 400 studenti, ma stavolta gli universitari si ribellano: un gruppo di liceali assalta il cordone di polizia e i pullman dove sono rinchiusi gli studenti. Tirano di tutto, sanpietrini, bottiglie, addirittura qualche carriola (questa particolare “arma” mi ha colpito molto nelle immagini dell’epoca). Verso le 18 il quartiere latino si trasforma in un campo di battaglia, i poliziotti sono stupefatti dalla violenza degli scontri, e dalla marea di studenti che continuano ad arrivare e dare manforte ai primi manifestanti; soltanto verso mezzanotte ritorna la calma, la Sorbona è chiusa, 83 poliziotti sono feriti e 574 persone vengono arrestate, di cui 179 minori. Ma ormai la miccia è accesa.

Il 6 maggio si aggiunge alla protesta degli studenti anche lo Snesup’, il sindacato dei professori universitari. “Maggio Sessantotto” inizia a prendere forma, e gli scioperi iniziano a diventare quotidiani, fino al 10 maggio, la notte delle barricate.

La settimana del quartiere latino, nelle immagini dell’epoca

Gli studenti si riuniscono davanti alla fontana di Saint Michel e iniziano a risalire verso la Sorbona, da boulevard Saint Michel, chiedendo la liberazione dei “compagni” arrestati. La polizia li attende nella piccola piazza davanti all’università, decisa a non farli entrare, ma si ritrova accerchiata e in inferiorità numerica. I manifestanti iniziano a montare barricate con le macchine parcheggiate, gridando slogan come “se non ci fate entrare dentro non vi facciamo più uscire dal Quartiere Latino”, e cominciano, ancora una volta, a tirare verso gli agenti qualunque oggetto sotto mano. Verso le due del mattino la polizia riesce a rompere l’accerchiamento. Ma non è più una rivolta, è un’insurrezione. Un’insurrezione che continua.

Il potere, intanto, non sa come affrontare una situazione inedita. Pompidou è sempre all’estero, il ministro dell’Interno, Fouchet, si lamenta con de Gaulle per gli scarsi mezzi a sua disposizione per contenere i manifestanti. Per un momento, probabilmente, il generale pensa di inviare l’esercito e riportare l’ordine, ma il rischio di introdurre uomini abituati a utilizzare le armi è troppo alto. Il generale è frustrato, accusa il governo di essere incapace, ma non riesce a trovare il modo di contenere le manifestazioni, che continuano, ogni giorno. Ma cosa pensano i francesi in tutto questo? La domanda non è banale anche perché non soltanto non esistono smartphone e social media, ma nemmeno la televisione è quella che conosciamo oggi. La Ortf, la tv di stato, è controllata dal governo, i palinsesti decisi dal ministro delle Telecomunicazioni, i giornalisti poco abituati a contestare il potere. I telegiornali, quindi, minimizzano. Ma ci sono due radio private, Europe n.1 e Rtl Luxembourg, che possono seguire come meglio credono le proteste. E cominciano a essere ascoltate da milioni di persone.

Le auto delle due radio private, Rtl e Europe n. 1

La radio è un mezzo facile, è il vero media di massa di quegli anni grazie all’invenzione e alla commercializzazione dei transistor portatili. A Parigi, nel maggio Sessantotto, tutti hanno un transistor. Cosa fanno quindi i giornalisti delle due radio private, unici a poter seguire senza restrizioni il movimento studentesco? Cominciano a girare reportage in presa diretta, con collegamenti continui dal Quartiere Latino, interviste agli studenti, agli abitanti del quartiere, ai professori, agli intellettuali. Si crea prossimità tra giornalisti e studenti, che comprendono subito di potere utilizzare la radio a loro vantaggio per comunicare tra una barricata e l’altra, o semplicemente avvertire in diretta di una carica più violenta, del numero di poliziotti in quella tale strada.

Il generale de Gaulle, che aveva costruito parte della sua epica grazie all’utilizzo della radio (cercate su Google Radio Londra o il verso “blessent mon coeur, d’une langueur monotone”), non può sopportare che il suo mezzo sia usato con quell’efficacia da altri: dopotutto la radio “è la voce della Francia”. Il governo decide di tagliare gli strumenti tecnici che permettono di trasmettere in diretta dalla strada. Non è una censura, le radio possono ancora trasmettere in diretta dagli studi, ma quasi: i reportage si fanno in differita. Come si risolve questo problema? Le onde radio sono inservibili, ma i telefoni delle case possono chiamare gli studi: i parigini decidono di aprire le case ai giornalisti e agli studenti, e il divieto è aggirato.

Pompidou, fino a quel momento ancora in Iran in viaggio ufficiale, decide di rientrare a Parigi per pacificare la situazione. Atterra nella notte del 12 maggio, e ordina subito la riapertura della Sorbona, fino a quel momento ancora controllata dalla polizia. Invano. Il 13 maggio i sindacati dichiarano lo sciopero generale, oltre un milione di persone scende in piazza a Parigi, la Sorbona si dichiara “comune libero”. Il 15 maggio è occupato anche il teatro dell’Odéon, il 16 l’occupazione raggiunge le imprese di stato: Renault, Air France, la Sncf e la Ratp. Il 19 è interrotto il festival di Cannes, il 20 occupano i licei, il 21 sono occupate le sedi di Peugeot, Michelin, Bréguet, Citroën, EDF e GDF, la sedi dell’ordine dei medici e degli architetti, il 22 si contano ormai 10 milioni di lavoratori in sciopero, più della metà della forza lavoro. Anche la televisione pubblica entra in sciopero. Non c’è più benzina, le telecomunicazioni sono bloccate, persino il personale dei ministeri smette di andare a lavoro, con la conseguenza che il primo ministro non riesce più a comunicare né con i suoi ministri né con le prefetture. La Francia è paralizzata.

Il governo non riesce a reagire. Siamo in anni strani, c’è il muro di Berlino, il comunismo è in piena fase di espansione, o almeno così sembra. Il regime gollista è terrorizzato dalla possibilità di una vera e propria rivoluzione bolscevica, così come i socialisti di François Mitterrand (letteralmente detestato dagli studenti), che temono di essere scavalcati alla loro sinistra da un movimento che non controllano e non capiscono fino in fondo. In più, nessun leader di sinistra pensava di fare la rivoluzione, tutti si adoperano per non essere accusati di voler prendere il potere illegalmente, nessuno vuole finire in prigione a seguito di un’eventuale repressione.

Il 24 maggio, se possibile, gli scontri sono ancora più violenti. Stavolta gli studenti si spingono a rive droite, incendiano la borsa di Parigi, si avvicinano pericolosamente all’Eliseo. Il caos è tale che ormai l’opinione pubblica comprende che nessuno controlla più nulla, il governo rischia di perdere la presa sulla polizia, che, esasperata, risponde in modo sempre più violento alle manifestazioni, i sindacati non controllano più il movimento. Dopo la notte del 24 maggio c’è una sorta di presa di coscienza dei francesi, non contro i manifestanti ma contro il disordine. Pompidou capisce che c’è un margine, decide di provare a dividere il fronte sindacale e quello studentesco, e immagina una trattativa con i sindacati.  Il primo ministro, però, non può semplicemente proporre ai sindacati un incontro come niente fosse, con metà paese sul piede di guerra. Come fare ad annunciare dei negoziati o persino un accordo e quindi attirare tutti i sindacati senza che qualcuno dica di no? Bisogna iniziare a trattare in segreto.

Jacques Chirac, a sinistra, Georges Pompidou, a destra

Un uomo viene designato per portare avanti queste trattative segrete, un giovane sottosegretario al Lavoro: Jacques Chirac. Chirac prende contatto con Jean Magniadas, consigliere economico del segretario della Cgt (la Cgil francese), poi, la notte del 24 maggio, mentre infuriano gli scontri, incontra Henri Krasucki, numero due della Cgt, in un piccolo appartamento a Pigalle, vicino Montmartre. Chirac arriva armato su consiglio di Pompidou: meglio non rischiare, visti i tempi e il momento, un rapimento non è completamente da escludere. L’incontro ha successo, i sindacati sono d’accordo ad aprire una trattativa sulle condizioni di lavoro, e il pomeriggio del 25 maggio sono ricevuti a rue de Grenelle, al ministero del Lavoro. Il 27 maggio i sindacati annunciano che un accordo è stato raggiunto, ed è una vittoria storica: il salario minimo è aumentato del 35 per cento, il salario generale di circa il 10 per cento, i sindacati sono autorizzati a creare associazioni all’interno delle aziende (la sezione sindacale d’impresa). In cambio, gli scioperi devono finire.

Ma siamo a maggio Sessantotto, e succede una cosa che i sindacati non avevano previsto.

Alle 11 e mezza dello stesso giorno Georges Séguy, segretario della Cgt, si presenta alla fabbrica Renault di Billancourt per comunicare l’accordo e chiedere agli operai di tornare al lavoro. Si aspetta un applauso, un’approvazione entusiasta della vittoria sindacale nella trattativa. Ma gli operai non sono contenti, urlano, fischiano, non accettano gli accordi e non vogliono terminare l’occupazione. La sinistra non comunista capisce a quel punto che c’è forse uno spazio per occupare politicamente il terreno, e riunisce allo stade Charlety oltre 50.000 persone. Il 28 maggio, al mattino presto, François Mitterrand si candida alla presidenza della Repubblica. Ma l’annuncio non genera nessuna dinamica, anche perché, e questa è l’analisi più giusta su quello che è stato il maggio Sessantotto, il movimento è culturale, sociale, non politico. Nessuno sa bene come servirsi di una sollevazione giovanile che mette in discussione la società stessa, il capitalismo, le guerre degli americani. De Gaulle certo, ma anche i partiti di sinistra. E così, ignorando l’iniziativa politica di Mitterrand, sindacati e studenti annunciano un’altra grande manifestazione per il 29 maggio.

La fabbrica Renault, in assemblea

Il governo è preoccupatissimo, la manifestazione dovrebbe arrivare fino alla stazione di Saint Lazare, a poche centinaia di metri dall’Eliseo. Le dicerie parlano di armi fatte entrare a Parigi dai militanti comunisti in contatto con Mosca, Pompidou chiede all’esercito di tenersi pronto. I carri armati dell’Armée attendono fuori Parigi, pronti a intervenire se le cose dovessero finire male. Che succede se i manifestanti vanno oltre Saint Lazar e arrivano nel cortile dell’Eliseo? De Gaulle capisce che deve fare qualcosa e, come avrete capito, la mattina del 29 maggio chiama Pompidou e “lo abbraccia”.

In elicottero, a pochi minuti da Baden Baden, Flohic, aiutante di campo di de Gaulle, prepara l’arrivo del presidente nella caserma dell’esercito. Chiama quindi il generale Massu, eroe della guerra d’Algeria e fedelissimo di de Gaulle, che comanda le truppe francesi in Germania:

“Stiamo arrivando, il generale è con me. Si prepari.”

“Il generale de Gaulle? Qui, a Baden Baden?”

“Sì”.

Intanto a Parigi regna la confusione. Dov’è il generale? Si ritira dalla vita politica? E’ rimasto in Francia? E’ in Inghilterra? In Germania? Pompidou decide di tenere segreta la notizia, ma le dicerie iniziano a circolare. Fa quindi riservare il tg delle 20 per annunciare l’accaduto. Massu, a Baden Baden, accoglie de Gaulle, tetro: “E’ tutto fottuto, Massu, i comunisti prendono il potere. Io mi ritiro”, dice il generale. Massu prova a rassicurarlo,  e dopo un pranzo leggero discute con lui per più di un’ora nel suo studio, in privato, con tutta la sua famiglia e quella di de Gaulle, arrivata nel frattempo, davanti alla porta per cercare di capire cosa stia succedendo.

Il generale Jacques Massu

“Non può permettere che dieci giorni distruggano dieci anni di lavoro”, lancia Massu, che capisce il momento complicato del generale. De Gaulle ascolta attentamente, quasi come se avesse bisogno di qualcuno che gli dica la verità, che gli faccia capire che la partita non è ancora finita. Massu, evidentemente, riesce nell’intento. Verso le 17 De Gaulle chiama Pompidou, gli comunica che il giorno seguente sarà di ritorno a Parigi. La crisi rientra, il 30 maggio una manifestazione di sostegno al regime gollista raccoglie più di un milione di persone sugli Champs-Élysées, alle 16.30 il generale parla alla radio e scioglie l’Assemblea Nazionale. Il movimento studentesco è preso in contropiede, e il 30 giugno la vittoria gollista è netta: l’UDR e l’RI raggiungono il 43 pr cento dei voti, il centro democratico il 10 per cento, i comunisti il 20 per cento, la federazione dela sinistra democratica e socialista il 16,5 per cento.

Una vittoria temporanea. Un anno dopo, il 27 aprile 1969, de Gaulle perde il referendum da lui proposto per concedere più poteri alle regioni e modificare le funzioni del Senato. E’ l’ultima sconfitta, il 28 aprile 1969, con un comunicato, il generale si dimette e si ritira a vita privata.