Mafia Capitale cambia volto e nome. Nell’aula bunker di Rebibbia, con la sentenza pronunciata il 20 luglio dalla presidente Rosanna Ianniello, è caduta l’accusa di associazione mafiosa per 19 dei 46 imputati portati alla sbarra in quello che è stato il processo più famoso degli ultimi anni.
Pene pesanti ma inferiori a quelle richieste dai tre pubblici ministeri che la procura ha schierato in aula, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini.

Massimo Carminati, per il quale erano stati chiesti 28 anni, è stato condannato a 20 anni di carcere e 14 mila euro di multa, Franco Panzironi, l’ex uomo chiave di Ama, per il quale la procura aveva sollecitato una condanna a 21 anni, ha avuto dieci anni di carcere, così come Salvatore Buzzi, condannato a 19 anni, Brugia e Luca Gramazio, che dovranno scontare una pena di 11 anni e Mirko Coratti.
Luca Odevaine, uomo del gruppo all’interno del Viminale, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione. Cinque anni di carcere per Andrea Tassone, ex presidente Pd del Municipio di Ostia e tre anni di reclusione per Giordano Tredicine, ex consigliere di Forza Italia.
Nonostante l’accertata corruzione di funzionari pubblici e imprenditori, non ha resistito l’associazione mafiosa contestata agli imputati ne quell’idea, che per anni è stata data come certezza, di un nuovo tipo di mafia di “qualità”, passata in pochi anni dalla strada ai palazzi del potere, per metter poi mano sugli appalti e sfruttando anche la disperazione di quegli “ultimi” dimenticati da tutti tranne che dal gruppo comandato da Buzzi e Carminati, che insieme agli altri condannati, non usciranno dal carcere, almeno per ora.