Il ritorno alla normalità dalla notte d’Europa per la guerra in Ucraina sarà molto più complesso che dopo la pandemia. Perché, rispetto al Covid, il conflitto scatenato da Vladimir Putin porta ulteriore incertezza sulla capacità di resistenza del sistema industriale italiano e rischia di minare quella condivisione di intenti che all’apparenza hanno raggiunto i paesi membri dell’Unione. Due debolezze in un colpo solo.

Dal punto di vista congiunturale, l’Italia sembra piombata nella  situazione più complessa del dopoguerra, in quanto alle difficoltà già esistenti di fronteggiare la fiammata inflazionistica buona, legata alla ripresa economica, ora si aggiunge quella di mettersi al riparo da una seconda scossa tellurica sul fronte della materie prime connessa all’inflazione cattiva, quella generata dall’uso delle armi. I due innesti sui prezzi possono condurre, come ho spiegato in un editoriale su MF-Milano Finanza, ad una situazione di razionamento delle necessarie fonti di energia in settori cruciali, con una forte caduta della produzione. Tutto il nostro paese sta correndo il rischio di uno stop alle attività produttive in almeno cinque comparti (siderurgia, automotive, ceramica, legno,  agro-industria) per mancanza, proprio così, di materie prime. Guerra e pace si combinano in un mix micidiale.
Al caro energia, cui il governo ha destinato in tre interventi diversi una ventina di miliardi di euro, due dei quali già nel periodo precedente all’invasione dell’Ucraina, quando alcune fabbriche già erano costrette a turni notturni per spendere meno di bolletta elettrica, si aggiunge il problema degli approvvigionamenti dal 24 febbraio di quest’anno, giorno in cui i carri armati di Mosca hanno varcato la frontiera ucraina. Associazioni e Confindustria si sono svegliate da un torpore presumibilmente legato ad uno shock dovuto ad una situazione senza precedenti e hanno spinto palazzo Chigi ad intervenire; ma la sensazione è che si navighi a vista, nella speranza che la guerra duri poco ma nella consapevolezza che invece sarà sempre peggio, come sottolineato subito dal presidente francese Emmanuel Macron. Mentre il mondo si riarma, compreso il nostro paese e si cambiano gli stessi modelli industriali e i principi della crisi d’impresa, la risposta non può che essere comune, esattamente come con i vaccini e il piano di rilancio economico.
Servono una seconda edizione di debito comune e un piano Marshall per l’energia, occorrerà infatti ampliare la portata del Next Gen Eu. Ma nel frattempo si vive un po’ alla giornata, in Italia come in Europa, sperando che provvedimenti tampone per un mese sulla benzina e sui profitti dei big dell’energia – ancora tutti da capire e verificare – possano spegnere un fuoco che ormai è un incendio diffuso tra le principali linee produttive di fabbrica Italia e tra molte produzioni europee .
Soprattutto non si capisce in cosa si differenzi la guerra, che fa stragi, morti e ha causato già oggi una immane catastrofe umanitaria, dal Covid. Solo una cosa è palese: la pandemia colpiva tutti quanti e la risposta non è potuta che essere comune, la guerra tende invece a dividere gli assetti dei paesi fondatori dell’Unione, perché essi hanno differenti piani ed autonomie energetiche. Quello che non è accaduto con la prima crisi dei migranti nel 2015 e poi col Covid nel 2020, può perciò accadere nel 2022. Senza una politica comune dell’energia e un commissario che la rappresenti,  senza una politica comune della difesa con un suo plenipotenziario, l’Unione subirà, da una parte, gli strattoni del nazionalismo dei paesi occidentali, preoccupati per l’impatto della guerra sulle proprie economie e, dall’altra, quella dei paesi dell’Est, che da soli non possono reggere l’urto di dieci milioni di profughi ucraini. Le sanzioni, sempre più dure, che vengono comminate alla Russia, possono dare un’idea di compattezza oggi, ma sembrano nascondere l’assenza di strategia per il dopo. Nessuno si chiede cosa accadrà ad un paese grande quanto l’Ue e di 140 milioni di abitanti nel caso davvero fallisse, e cosa sarà parimenti di un paese da ricostruire come l’Ucraina di Volodymyr Zelensky. Questa crisi è dieci volte quella vista nella ex Jugoslavia e Putin non è certo Milosevic come forza militare e potenza di fuoco.
A questi ulteriori e drammatici interrogativi, non esiste che una risposta, che va bene per l’Italia come per l’Unione: procedere speditamente, usando la cooperazione rafforzata che supera le lunghezze della riscrittura dei trattati, verso gli Stati Uniti d’Europa. Solo così il prossimo Putin troverà compattezza vera e stato di diritto, garantito non solo dalla moneta ma da un esercito e da una politica unica. L’Italia può farsi promotrice di un’azione in questo senso: non avrà il gas, il petrolio o l’atomica, ma ha la forza intellettuale, la capacità e soprattutto la convenienza per farlo. Sono le sue uniche armi ma potrebbero essere vincenti.