Dicembre 2015. A pochi mesi dall’entrata in vigore della legge 107 – un monstrum di un unico articolo con 212 commi che declinano in tutti gli aspetti un’autonomia ormai deformata in autarchia – nella sedicente ‘buona scuola’ si naviga a vista, nel più assoluto disorientamento, all’insegna dell’improvvisazione quotidiana.
Lo scollamento fra forma e contenuto – ovvero, da un lato, gli adempimenti giuridici e gli obblighi di legge, dall’altro l’effettiva possibilità di realizzarli in concreto, con risorse economiche e umane adeguate – è drammatico: oscilla tra la forte criticità del reale, ben nota a insegnanti e studenti, e il paradosso della narrazione mistificata nel racconto del Governo e dei media mainstream, che nascondono all’opinione pubblica il profilo emergenziale della situazione.
Solo qualche esempio: all’obbligo di impartire corsi di recupero per gli studenti con debiti formativi (O.M 92/2007) non corrisponde il corrispettivo finanziamento alle scuole; alla richiesta di indicare nel Rapporto di Autovalutazione gli obiettivi di miglioramento per un triennio (DPR 80/2013) non fa seguito la concreta possibilità di realizzarli; alla sollecitazione di fornire indicazioni specifiche per l’organico potenziato (ex legge 107/2015), un algoritmo ministeriale risponde mescolando ordini di scuola e classi di concorso, con docenti abilitati all’insegnamento nei licei assunti alle elementari e docenti di disegno o educazione fisica destinati alle scuole che avevano fatto richiesta di potenziamento per italiano o matematica.
Introdotta 15 anni fa da un Governo di centrosinistra che, contemporaneamente, attribuiva la parità alle scuole private, assimilandole nel sistema pubblico di istruzione e inaugurando la lunga e mai interrotta stagione dei finanziamenti anticostituzionali, l’autonomia scolastica ha progressivamente determinato la disarticolazione del sistema formativo italiano sancito dalla Costituzione repubblicana: oggi, con il combinato disposto del novellato Titolo V che nel 2001 ha regionalizzato l’istruzione e la legge 107/2015 che definisce i termini della dismissione dell’istruzione da parte dello Stato, la scuola italiana ci appare come un mosaico di tessere disordinatamente, e forse definitivamente, affastellate. Non più una istituzione dello Stato, ovvero quell’organo costituzionale deputato alla rimozione degli ostacoli che impediscono il raggiungimento e l’esercizio delle pari opportunità per tutti i cittadini, bensì un servizio sociale on demand, deterministicamente legato al suo territorio sotto il profilo culturale, sociale e soprattutto economico.
Se ci cimentassimo nella rilevazione linguistica delle occorrenze, ci accorgeremmo che, accanto al termine ‘flessibilità’, il sintagma più frequente nel testo della legge 107 è “nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, reiterato a ogni piè sospinto. Che se, stilisticamente parlando, configura lo stilema di una riforma a costo zero – non tragga in inganno la stabilizzazione dei precari spacciata dal Governo come investimento – sotto il profilo politico implica la consegna della scuola pubblica italiana al mercato e al privato: oggi le famiglie, che sostengono con i loro contributi ‘volontari’ i costi di gestione delle scuole, fino a centinaia di euro pro capite nelle zone più ricche; domani gli investitori privati – persone fisiche, fondazioni, società, enti – già adeguatamente gratificati dal protocollo d’intesa sull’alternanza scuola-lavoro firmato tra MIUR e Confindustria, e più ancora con i bonus fiscali e i crediti d’imposta previsti per le loro erogazioni liberali alle scuole statali. Di fatto, questa legge disegna per noi una brutta copia delle ‘charter school’ americane che, sottratte all’autorità statale, vengono periodicamente affidate ai progetti culturali e agli investimenti economici di ‘illuminati’ filantropi.
Tutto ciò non stupisce un attento osservatore delle politiche di un Governo prono, come del resto i precedenti a partire dalla destituzione di Berlusconi nel 2011, ai voleri dell’Europa della finanza che invoca austerity, privatizzazioni e libera concorrenza, riservando l’intervento statale solo al salvataggio delle banche. Le richieste di riforma di una scuola messa costantemente sul banco degli imputati perché scarsamente produttiva costellano le lettere e le raccomandazioni che l’Unione europea manda ai nostri governanti da anni: dalla diversificazione della carriera dei docenti, la cui progressione deve essere correlata al merito e associata ad una valutazione generalizzata del sistema educativo, al potenziamento delle forme di controllo dei risultati dell’attività scolastica attraverso le rilevazioni nazionali e internazionali delle competenze degli studenti in più momenti del loro percorso formativo, fino al rafforzamento e all’ampliamento della formazione pratica, per assicurare un’agevole transizione dalla scuola al mondo del lavoro aumentando l’apprendimento e la formazione professionale. Alla scuola si attribuisce anche, per soprammercato, la responsabilità nell’aumento della disoccupazione giovanile, che in Italia ha quasi raggiunto il 43% nel terzo trimestre del 2014, e della percentuale di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano né sono impegnati in corsi di studio o di formazione, la più elevata tra i paesi dell’Unione europea, le cui cause sono, per i tecnocrati di Bruxelles, da ricercare nel nostro sistema d’istruzione, ancora caratterizzato da risultati scolastici inferiori alla media dell’Unione europea e da tassi di abbandono scolastico relativamente elevati. E non, invece, nella mancanza di politiche economiche e industriali volte alla crescita, allo sviluppo e al progresso del nostro Paese.
Ma il costante j’accuse omette tuttavia un particolare significativo: secondo i dati Eurostat, l’Italia è da molti anni agli ultimi posti per investimenti in istruzione tra i paesi Ocse. Dalle statistiche appare che quella sull’educazione in Italia è la voce della spesa pubblica che ha subito negli anni della crisi, dal 2007 al 2013, la maggiore riduzione percentuale, meno 1,6%, ovvero il doppio rispetto al meno 0,8% della media Ocse. Miliardi di euro sottratti alla scuola.
Il rapido e accurato programma di privatizzazioni che il Consiglio europeo raccomanda all’Italia, che comporta l’assunzione di una concezione aziendalistica e verticistica anche nel governo della scuola, corrisponde pienamente allo spirito della legge 107. E contraddice il principio costituzionale di una scuola libera, laica, democratica e gratuita per tutti, aprendo la stagione della competizione dentro le scuole e tra le scuole, nella rincorsa ai bonus, ai finanziamenti, alle classifiche, agli studenti definitivamente trasformati in clienti.
E’ questo che i padri fondatori dell’idea di un’Europa di cultura e di pace hanno immaginato per noi?