(dalle newsletter di Francesco Maselli)

Si può governare la Francia senza un partito strutturato? La domanda è ricorrente quando si parla del mondo che sostiene il progetto di Emmanuel Macron. Il presidente francese ha vinto le elezioni nonostante non avesse un suo partito, e sta governando la Francia in modo molto verticale, senza che, per il momento, dal suo movimento politico siano emerse personalità tali da poter rivendicare un’autonomia politica (come invece accadeva nei socialisti e nei gollisti anche quando il presidente era un leader riconosciuto e incontestato, come François Mitterrand o Nicolas Sarkozy). Questo è abbastanza naturale per un partito nato da poco, ma rappresenta un problema per i prossimi appuntamenti elettorali.

Il 2018 è stato un anno bianco in Francia, il paese non ha votato per nessuna elezione, e questo ha permesso a Macron di evitare un primo giudizio sulle sue politiche. Una situazione fortunata che non si ripeterà nei prossimi anni, con una particolarità importante: a differenza dell’Italia, dove le elezioni comunali e regionali non avvengono in contemporanea, e dunque è più complicato trarre delle indicazioni nette rispetto alle tendenze nazionali, in Francia le elezioni comunali (2020) e regionali (2021) vedranno tornare al voto tutti i consigli comunali e regionali. Per quanto questi due scrutini siano legati a logiche molto diverse da quelle che orientano il voto alle presidenziali,  il governo in carica ha da sempre difficoltà a minimizzare un’eventuale sconfitta.

La République en Marche è in difficoltà in entrambi gli scrutini. Tralasciamo per un secondo Macron, che continua a calare nei sondaggi di popolarità, per notare come a poco più di sei mesi dalle elezioni europee, la situazione resti molto incerta: non si conosce il nome di chi guiderà la lista de La République en Marche, non si sa se l’alleato di governo, i MoDem di François Bayrou, correrà da solo (rubando voti) oppure accetterà di formare una lista unica. Inoltre, cosa farà Alain Juppé, ex candidato alle primarie del centrodestra, repubblicano molto critico con il nuovo segretario e considerato vicino a Macron? Proporrà una sua lista? Tutte domande rilevanti che dovranno ricevere prima o poi una risposta.

 

 

 

Macron continua a perdere terreno nei sondaggi, ma la novità più interessante da notare è l’aumento della polarizzazione di chi non lo sostiene: ormai il 44 per cento dei francesi ha un’opinione “molto sfavorevole” del presidente della Repubblica, una tendenza in aumento dalla scorsa estate.

Per le elezioni municipali del 2020 la situazione è, se possibile, ancora peggiore: consci della propria incapacità di presentare candidati competitivi in tutte le città, gli uomini di Macron hanno cercato di accordarsi con i sindaci uscenti, promettendo di appoggiarli e di aiutarli a essere rieletti. La tattica faceva parte della più grande strategia cominciata durante le presidenziali e proseguita alle legislative e nella formazione del governo: coinvolgere esponenti dei partiti tradizionali per accelerarne l’esplosione. L’idea ha funzionato nei primi mesi di mandato, quando sembrava che i sindaci di importanti città fossero pronti ad accettare un apparentamento con il partito del presidente. Viste le difficoltà della maggioranza, tuttavia, la prospettiva è sempre meno allettante: il rischio è di farsi appoggiare da un partito che nel 2020 potrebbe essere percepito come una bad company.

Lo statuto de La République en Marche non prevede primarie, ma “una commissione di investitura” che sceglierà i candidati in maniera relativamente arbitraria (era già stato così per scegliere i 577 candidati nei collegi dell’Assemblea nazionale e sarà così per la composizione della lista alle europee). Questo modo di decidere ha creato qualche malumore nella base, senza che la dirigenza del partito cambiasse la procedura: “La sfida è articolare una certa verticalità, rivendicata, che è garanzia di efficacia, con un’orizzontalità nutrita dalla dinamica militante e il rispetto delle nostre promesse di campagna” ha detto al Figaro Pierre Person, responsabile del polo elezioni del partito. Una frase che più politichese non si può.

Ciò detto, il partito sul territorio esiste, o almeno cerca di ritagliarsi il proprio spazio. Prolungare l’attività politica in assenza di elezioni è senz’altro più difficile, mi ha spiegato Gilles Widawski, responsabile En Marche nel 16éme arrondissement di Parigi. Oggi, domenica 25 novembre, il partito ha organizzato 20 eventi tra riunioni pubbliche, volantinaggi e dibattiti in tutta la Francia –non moltissimi, ma meglio di niente.

 

 

I militanti macronisti con K-Way e bandiere di ordinanza

Ho passato una mattinata con Widawski, durante un volantinaggio organizzato al marché Wilson, a pochi passi dalla tour Eiffel. Per l’occasione i militanti, una ventina, avevano un’app fornita dal partito per raccogliere informazioni dalle persone interrogate: tramite il proprio smartphone i “marcheurs” registrano le opinioni dei cittadini sui temi più importanti per la città, e una volta raccolti questi dati vengono analizzati per costruire il programma partecipativo con cui La République en Marche si presenterà alle elezioni comunali del 2020.

Secondo Widawski questo è “un modo per mostrare che siamo in grado di ascoltare i bisogni dei cittadini, un difetto che ci viene spesso imputato. Lo abbiamo già fatto durante le presidenziali, costruire un programma politico non è soltanto un processo che va dall’alto verso il basso, ma è vero anche il contrario”. Molte persone, sorprese e incuriosite dal gadget tecnologico, si fermavano e in circa 10 minuti esprimevano i propri desideri e consigli per la città. Il partito, continua Widawski, ha deciso di utilizzare l’app Paris&Moi soltanto a Parigi, ma non esclude di esportare il modello in altre grandi città.

 

 

Il mercato e il “sondaggio” fatto tramite l’app Paris&Moi

Come vi avevo anticipato, ho provato ad andare a vedere un’altra iniziativa del partito, a Troyes in Champagne-Ardenne, dove veniva presentata “1000 talents-tous politiques”, la scuola di formazione politica de La République en Marche. Purtroppo l’incontro è stato spostato, a causa di un problema ricorrente per il partito: la mancanza di donne. Già durante la campagna elettorale, quando il movimento stava selezionando i candidati per le elezioni legislative, la questione di genere spinse persino Emmanuel Macron a pubblicare un appello, visto il numero esiguo di candidature femminili spontanee.

 

 

 

Il video di Macron durante la campagna elettorale per incoraggiare le candidature femminili

In questo il partito ha rispettato gli impegni, metà dei candidati era donna, e oggi il 47 per cento dei suoi deputati è donna (cifra che contribuisce ad alzare la media di tutta l’Assemblea nazionale, che ha comunque raggiunto il record di 38,8 per cento). Per continuare a tenere fede a questa promessa, mi hanno spiegato da La République en Marche, l’evento è stato rinviato.

E’ chiaro tuttavia che queste iniziative da sole non bastano, un partito non serve soltanto a distribuire volantini, ma anche a orientare il dibattito pubblico, capire cosa succede nella società, presentare proposte per il paese. Tutte queste funzioni non esistono: l’unico che può definire tutto ciò era e resta Emmanuel Macron, che però di mestiere ormai fa il presidente e non il leader di partito. Questo comporta alcune incomprensioni e cacofonie, com’è accaduto tra il presidente e l’ex delegato generale di En Marche (il segretario del partito), Christophe Castaner, oggi ministro dell’Interno. Lo scorso settembre Castaner, coerente con lo spirito che guida una parte delle politiche economiche di Macron (spostare il carico fiscale dal lavoro alla rendita), aveva proposto di rivedere il regime delle imposte sulla successione per lottare contro “la progressione delle diseguaglianze di nascita”, visto che questo tipo di tasse “non ha seguito l’evoluzione della società e delle nuove forme familiari”. L’Eliseo, visibilmente imbarazzato da questa dichiarazione, ha subito corretto il segretario in una nota: “Il presidente della Repubblica ha formalmente escluso qualunque modifica dei diritti di successione durante il suo mandato”. Insomma, la strada per l’autonomia politica è lunga.

Ad aggiungere confusione, c’è un relativo cambiamento di strategia di Macron in persona. Dopo avere cercato di disegnare la nozione di “sovranità europea” durante la campagna elettorale, il presidente ha passato il suo primo anno di mandato alimentando il bipolarismo sovranisti/progressisti che aveva caratterizzato le due settimane tra primo e secondo turno, quando il suo avversario era Marine Le Pen. L’obiettivo era chiaro: rendere permanente lo scontro tra la sua persona, unico candidato credibile, e l’estrema destra frontista. Oltre ad essere pericoloso e semplificatorio (se Macron fallisce che succede? Si vota Le Pen? Possibile che altre strade non abbiano cittadinanza, anche tra chi non vuole uscire dall’Unione europea?), il bipolarismo voluto da Macron si è rivelato inefficace. Ecco perché il tono, a partire da novembre, è cambiato: “Capisco la paura nei confronti di un’Europa ultraliberale che non permette più alle classi medie di vivere bene”, ha detto il presidente a margine del suo itinerario memoriale sui luoghi della Prima guerra mondiale, “abbiamo bisogno di un’Europa che protegga i cittadini, capace di prendere in carico la sua sicurezza in modo più sovrano”.

Macron il sovranista, dunque? No, in realtà più che un cambiamento si tratta di un ritorno alle origini e di un approfondimento di concetti sempre difesi. Certo, certifica un fallimento dello scontro tra progressisti e nazionalisti che il presidente stesso aveva teorizzato. Con grande gioia del suo alleato François Bayrou, presidente dei MoDem: “Non abbandono la nazione ai nazionalisti. Mettere la parola ‘nazione’ nel mondo degli avversari è un errore”.