“Stop the war now” è un’azione in favore del ritiro della Russia dalle ostilità e dell’intervento delle Nazioni Unite per fermare la strage di civili in Ucraina, sostenuta da più di 100 organizzazioni (tra cui il Consiglio Nazionale dei Giovani, la Gioventù Federalista Europea e Arci Solidarietà Onlus).
Sul piano simbolico, si voleva dimostrare che l’iniziativa non è solo nelle mani dei governi, ma anche dei cittadini e della società civile che si battono in prima persona per la libertà e per la difesa dei diritti umani. Sul piano materiale, parliamo di oltre 200 volontari su quasi 70 mezzi che hanno formato una carovana di un chilometro con l’obiettivo di trasportare tonnellate di aiuti umanitari direttamente alle organizzazioni sul territorio e agli ospedali di Leopoli. Col rientro in Italia, sono state poi tratte in salvo 300 persone fragili bisognose di accoglienza.
Il nostro lungo viaggio è iniziato da Roma grazie all’impegno di Arci Solidarietà Onlus. Una volta passata la frontiera con la Polonia, abbiamo attivato delle applicazioni sui cellulari per ricevere la segnalazione dei bombardamenti in caso di assenza delle sirene. Ci siamo dovuti ritirare in rifugi improvvisati o nei bunker, ma non ci sono stati attacchi diretti nella nostra regione e abbiamo scaricato gli aiuti nei magazzini di stoccaggio senza grossi problemi. Ai numerosi checkpoint (alcuni gestiti anche dalle milizie nazionaliste, riconoscibili dalla bandiera a strisce orizzontali rossa e nera) soltanto alcuni volontari sono stati fermati dalle forze di sicurezza per verificare che non venissero scattate foto a obiettivi sensibili.
A Leopoli siamo stati ospitati dal Seminario greco-cattolico, dove abbiamo incontrato le istituzioni locali, le altre ong sul campo e l’ambasciatore italiano in Ucraina. Durante la permanenza in città abbiamo svolto una piccola “marcia della pace”, che è partita dalla stazione verso il centro, dove una parte dei mezzi ha raccolto i primi profughi provenienti in larga parte da Mariupol per ripartire subito verso l’Italia. Domenica, l’arrivo degli altri rifugiati, in questo caso soprattutto da Dnipro, è stato caotico e complesso, aggravato dalla neve e dalle temperature rigide. Una volta tornati alla frontiera, abbiamo passato ore in attesa per i numerosi controlli. Per tutta la notte e larga parte della giornata di lunedì è poi continuato il nostro lungo viaggio verso Roma, insieme a queste persone di ogni età, spesso disabili, che non avrebbero mai voluto lasciare la propria casa.
Solo con delle parafrasi si possono esprimere le emozioni che le ultime generazioni di europei non hanno mai provato: il senso di paura irrazionale in attesa di un attacco e di un nemico invisibile; la tranquillità data dall’assuefazione all’emergenza, alla straordinarietà, al grottesco, al pericolo e alla violenza; la rabbia che scava fino alle lacrime e che cresce improvvisa, totalizzante, alimentata dall’impotenza e dall’inadeguatezza nei momenti di consapevolezza, tra l’azione e l’inevitabile apatia per fare ciò che si deve per tirare avanti.
Nel concreto cosa abbiamo vissuto? Le risate di tanti, tantissimi bambini; le famiglie che si separano disperate alla stazione o alla frontiera; la forza smisurata di una madre; gli occhi delle persone distrutte che arrivano dalle zone di guerra; vedere che chi ha perso tutto è disposto a condividere con te pane e formaggio; chi scappa con il cane, chi con il gatto e chi non ha neanche i documenti; parlare e parlare senza capirsi; ragazzini in divisa con i fucili in mano; i sorrisi di ringraziamento pieni di malinconia; la paura dei bombardamenti; il coprifuoco; i checkpoint; i servizi elementari di uno stato che spariscono; l’immortalità della burocrazia; l’indescrivibile forza dei piccoli gesti; le persone che si aiutano a tirare avanti formando una comunità dove prima c’era solo un insieme di individui. Le parole di chi non vuole partire e ti chiede di aspettare qualche minuto in più alla frontiera, immobili, perché, nonostante il ritardo, in quel momento non è importante nient’altro. E poi c’è la morte lontana dal fronte, non detta, asettica, onnipresente ma in disparte: un’ombra che inquina quella che può sembrare una normale capitale europea. La trovi nei sorrisi, nelle urla dei bambini traumatizzati dal suono dei bombardamenti, nelle tute sporche, nei sacchetti pieni di tutto ma, soprattutto, nei pianti di chi capisce che forse finalmente è al sicuro.
C’è un solo responsabile che ha distrutto la normalità di milioni di persone. Quell’uomo si chiama Putin e lo ha potuto fare perché non esiste un’Unione europea in grado di riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti dopo il loro progressivo ritiro dall’Atlantico. I capi di stato la devono smettere di rincorrere il riarmo dell’Europa delle nazioni e creare un’Europa democratica e federale capace di fare una seria politica estera in difesa della pace, dei diritti umani e del multilateralismo. L’alternativa è il ritorno al Novecento e questa storia che abbiamo vissuto, e che pensiamo eccezionale, diventerà progressivamente la nostra nuova normalità.