Per capire come è cambiata l’Europa negli ultimi trent’anni basta andarsi a rileggere i paesi firmatari del Trattato di Maastricht: su dodici stati, ben cinque erano, e sono, monarchie seppur parlamentari. Probabilmente l’evoluzione del mondo e la globalizzazione hanno colpito nonostante ciò anche Spagna, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca, che continuano ad essere un Regno, ma di certo quanto accaduto nelle altre sette repubbliche che diedero vita alla base dei regolamenti per la nascita dell’Unione monetaria con annessi e fatidici parametri (ricordate? 3% di deficit-pil, 60% di debito-pil e 2% di inflazione massimi sopportati) non è stato da meno. Da quel 7 febbraio 1992, data dell’entrata in vigore del Trattato, la Francia è stata scossa  dal terrorismo islamico più volte e ancora si interroga sulle crepe che si aprono nel suo processo di integrazione, pur essendo ben salda nel suo assetto di governo semipresidenzialista e nella sua storia di grande stato laico. La Grecia, l’Italia e il Portogallo, dopo un lungo periodo di relativa tranquillità, all’inizio del secondo decennio del secolo sono divenute, per differenti motivi, gli anelli deboli dell’euro e sono state colpite prima dalla speculazione dei mercati e poi dalla cura lacrime-e-sangue della troika imposta da Berlino. A questi tre stati si aggiunga il Regno di Spagna, anch’esso finito nel mirino del rigore e prossimo anch’esso ad un impressionante default. Tutti si sono salvati, pagando lacrime e sangue. Del Lussemburgo poco si sa, a parte che il Granducato, patria del più grande paradiso fiscale autorizzato e di molte holding finanziarie, è sede della Corte di Giustizia ed ha dato i natali a due presidenti di Commissione, dimenticabili. Analogo discorso si può fare per l’Irlanda, stato simpatico e amatissimo dai big tech americani, perché molto benevolo in fatto di tasse delle multinazionali. Resta la Germania, che pur non essendo una monarchia, in questi trent’anni è stata retta prima dal padre della riunificazione, Helmut Kohl, divenuto anche regista dell’euro, e poi per sedici anni da Angela Merkel, dopo la parentesi riformista di Gerard Schroeder. Di fatto, Germania e Francia, per storia, assetto istituzionale e stabilità di governo, hanno guidato da sole l’Unione dal 1992 ad oggi, allargandola col tempo a nuovi paesi e a tutti gli stati dell’Est Europa, una volta satelliti dell’Unione Sovietica.

Dal punto di vista economico, molto è cambiato però. I primi quattro paesi per popolazione e i tre per reddito pro capite, sono i fondatori – Italia, Francia, Germania – e la Polonia, il nuovo motore dell’Ue che guarda a Bruxelles con scetticismo ma ne usa i fondi fino all’ultimo centesimo di euro. Si potrebbe dire che Varsavia, leader anche del Patto nazionalista di Visegrad, sia la più grande opportunità per l’Europa e allo stesso tempo la più grande minaccia, per via della sua storia sanguinosa e per la sua attuale idiosincrasia a rispettare lo stato di diritto e le norme europee.
Il quadro che ne esce di questi primi Trent’anni del Trattato di Maastricht è dunque per forza di cose a tinte in chiaroscuro, anche per l’inopinata uscita della Gran Bretagna. La pandemia recente ha comportato due effetti: da una parte, si è finalmente capito che serve una sanità federata e una politica comune dell’accoglienza, come della difesa e dell’energia; dall’altra, ci si sta illudendo che il Next Generation Eu, il grande piano Marshall per rilanciare le economie comunitarie post Covid, sia in grado di cementare con i soldi quello che non è stato in grado di fare la politica. È un grave errore di tutte le diplomazie, perché finita la pandemia, si tornerà a respirare un vento nazionalista proprio per effetto della ripresa economica dovuta a quei fondi e alla politica della Bce. Nessuno dirà grazie. Prima o poi si dovrà decidere come mandare avanti un mercato unico dove non tutti hanno adottato l’euro, nessuno ha la stessa politica fiscale dell’altro, e ognuno fa concorrenza agli altri. Una giostra pericolosa.

Più facile da comprendere sembra invece il quadro dell’euro, anch’esso in questo 2022 giunto ad una data importante e grazie proprio a Maastricht: vent’anni. Ma solo perché ancora non ha un’anima.
Il ventennio difficile della moneta unica compie il suo anniversario proprio allo scoccare del secondo anno di pandemia. Spesso governato più dal caos che dai governi, il primo quinto del millennio ha registrato rivoluzioni finanziarie e crisi imprevedibili. La data in cui tutto cambiò è l’11 settembre 2001, quando insieme alle Torri Gemelle, abbattute dalla furia del terrorismo islamico, venne giù anche un’idea di capitalismo dal volto umano, divenuto da poco l’unico sistema economico del pianeta, caduto quello del socialismo reale. Proprio questa perdita di un competitor al di là della cortina di ferro, ha comportato l’impossibilità di migliorarsi e una certa tendenza al peggioramento, come documentano la lunga serie di scandali da Enron a Lehman Brothers, scoppiati proprio dalla metà degli anni novanta in poi, quando Muro di Berlino e Unione Sovietica erano implosi da tempo.

L’euro, per ironia della storia, nasce in scia a questi avvenimenti e a cavallo di due fenomeni. Il primo, felicemente individuato da alcuni storici tedeschi con il termine di finanzcapitalismo, è la combinazione, a volte fatale, di capitale e finanza, con la continua riduzione della componente lavoro, mix dei fattori della produzione che sarebbe poi diventata la benzina principale dell’economia digitale e dei nuovi monopoli. Il secondo fenomeno è la fine dell’illusione americana di vivere in un paese a prova di bomba e di terremoti economici. L’attacco a Manhattan degli uomini di Bin Laden, ma successivamente anche l’assalto a Capitol Hill da parte dei seguaci di Trump, avrebbero incrinato la prima certezza, mentre lo scoppio della crisi dei mutui sup prime avrebbe messo invece messo in ginocchio il Credo di Wall Street sulle virtù taumaturgiche del mercato. E’ in questo contesto di rivoluzioni continue e impreviste che in Europa si mettono nel gennaio del 2002 a coniare monete e biglietti da euro, totalmente impersonali, ancora privi di un’anima politica e di una fiscalità comune da impiantare dentro il mercato unico. Per molti economisti è un azzardo, per gli europei che lo adottano una scelta consapevole, per quello che si è visto finora, sicuramente la rottura del monopolio secolare del dollaro.

Volendo restare sui venti anni di euro che in questi giorni si celebrano, occorre valutare cosa significa per l’Italia essersi trovata al centro di questi avvenimenti e nel pieno dell’ingresso, non solo nella moneta unica ma della globalizzazione nel mercato europeo, altri due fenomeni i cui effetti si sentono ancora nella carne viva del nostro piccolo sistema industriale. Chi scrive ha già mostrato ne L’euro è di tutti, come l’avvento del nuovo segno monetario – per via di mancati controlli prima del periodo di doppia circolazione – abbia comportato per molti generi e servizi di prima necessità il raddoppio dei prezzi e la contemporanea perdita di potere d’acquisto di una buona fetta della classe media, rintanatasi, in alcuni casi, nel bene rifugio che è anche un investimento: la casa. Solo molto tempo dopo, alcuni autorevoli politici, come Romano Prodi, già presidente del Consiglio e della Commissione Europea, hanno ammesso l’imperfezione del cambiamento e i danni arrecati alle classi medie. Era troppo tardi. Ma non si si è mai fatto un ragionamento su cosa ha comportato l’euro per il mercato finanziario italiano e per la tenuta stessa dello Stato. A leggere alcuni dati, pubblicati da Milano Finanza, c’è da pensare che la moneta unica, pur con tutte le sue imperfezioni e il troppo alto valore di cambio, abbia comunque rappresentato un’assicurazione contro le numerose crisi finanziarie che sono scoppiate dal 2008 in poi per via del dominio di quel finanzcapitalismo appena descritto e dei prodotti ad alto rischio da esso generati.

Partendo dal debito nazionale, lo spauracchio per generazioni di tedeschi, i dati impressionano, ma favorevolmente. A inizio 2002 il Btp decennale rendeva oltre il 5% con un debito pubblico di 1.358 miliardi e un costo medio del debito del 4%. Oggi, grazie ai vari piani di acquisti della Bce, il Btp rende lo 0,96%, ma il debito è il doppio (2.706 miliardi !) con un costo medio per lo Stato del 2,12%, la metà di vent’anni fa, per un risparmio stimato nell’ordine di 40 miliardi di euro. Insomma, per le famiglie forse l’euro non è stato un affare, ma per lo Stato sicuramente sì.

Il dato più significativo di queste cifre raccolte è infatti che in vent’anni l’euro ha permesso all’Italia di evitare tre possibili default: nel 2008 (in seguito alla crisi finanziaria globale innescata dai mutui subprime e al fallimento della Lehman Brothers), nel 2011 (crisi dei debiti sovrani) e nel 2020 (pandemia Covid e conseguente recessione economica planetaria): con la lira saremmo diventati un piccolo stato alla ventura di ogni speculazione. Giulio Tremonti, più volte ministro dell’Economia e titolare del Tesoro durante due crisi su tre, in un’intervista a MF-Milano Finanza, ha dato corpo politico a questi numeri appena descritti: l’euro ci ha salvato, ha detto. E così in effetti è stato.

Salverà ancora l’Italia sotto forma di Piano Nazionale delle Riforme e Resilienza e dei 261 miliardi previsti per sostenere l’economia nazionale? Stavolta non dipende dalla moneta ma dall’uso, o dallo spreco, che ne faranno gli uomini e le donne che guideranno l’Italia nei prossimi anni, quando disuguaglianze, dominio digitale e finanza senza freni saranno ancora più forti.

E lo stesso si può dire anche degli altri paesi che utilizzeranno i fondi del Next Generation Ue, versione aggiornata di quel Trattato di Maastricht che dopo aver messo in comune le forze un tempo nemiche durante la guerra, ha cercato di cementarle con il mercato e la moneta. Si poteva fare meglio, ma visto quello che accade in giro per il mondo, occorre tenersi stretto quello che c’è e battersi per migliorarlo. L’Italia, che l’Europa ha fondato, pur con tutte le sue contraddizioni, ne è una prova lampante: senza l’Unione sarebbe ancora più piccola. (riproduzione riservata)