Il dibattito sul nuovo allargamento dell’Unione europea ai Balcani occidentali potrebbe dare nuovo vigore e slancio al sentimento di coesione e di unità tra gli Stati membri, arrivando al compimento delle riforme istituzionali lasciate incompiute dal 2007. La volontà di ridefinire il senso di identità europea grazie a nazioni e realtà esterne all’Europa però non è affatto una novità.

L’Europa è ben lontana dall’essere etichettabile come una semplice area geografica. Se nella storia recente una parte del Vecchio continente è stata concepita come un attore geopolitico di rilevanza globale, l’Europa tutta è stata principalmente intesa, per millenni, come un’identità, un’idea, un mito. L’Europa concepisce sé stessa come un patrimonio comune e condiviso di valori di lunghissimo periodo, ma questa concezione è nata e si è plasmata grazie alla contrapposizione con altre entità, continenti o popoli che hanno aiutato a definire – o per meglio dire a perimetrare – ciò che Europa non è, procedendo per sottrazione.

Il concetto di “non europeo” è cambiato nel corso dei secoli: dal barbaro combattuto dagli antichi Greci, ai Germani mai sconfitti dai Romani; dai Turchi avversi all’Europa cristiana medievale fino ad arrivare all’Oriente e al suo conflitto mai sopito con l’Occidente. 

Nel Medioevo ci si interrogava sul ruolo della penisola balcanica (compresa quella Grecia baluardo della cultura anti-barbara) e se essa fosse o meno appartenente a questa Europa morale che andava delineandosi. Ebbene, con la conquista ottomana della penisola ellenica e il conseguente Scisma d’Oriente, l’intera regione balcanica venne derubricata anch’essa nemico, a barbaro, ad anti-Europa. 

Oggi invece l’Unione europea, soprattutto con il dibattito sul Trattato costituzionale e il successivo Trattato di Lisbona, ha cercato di riproporre, in chiave moderna, i caratteri che identificano la coscienza europea da lungo corso. Appare ben evidente, inoltre, come oggi l’Europa sia riuscita ad svincolarsi da quella logica di superiorità morale puntando piuttosto sull’esaltazione della diversità. 

Il motto dell’Unione europea, non a caso, è “Uniti della diversità” e nasce dalla consapevolezza dell’ambiguità di questa volontà di definirsi in contrapposizione ad altri. Questo cambio di prospettiva è reso bene dal Rapporto 1992 della Commissione europea in cui si afferma che “il termine Europa non è ufficialmente definito. Esso combina elementi geografici, storici e culturali che tutti insieme hanno contribuito all’identità europea. L’esperienza condivisa della prossimità, idee, valori e interazione storica, non può essere condensata in una semplice formula, ed è soggetta a revisione da parte di ogni generazione che segue. La Commissione crede che non sia possibile, né sia opportuno stabilire le nuove frontiere dell’Unione europea, i cui contorni saranno disegnati lungo gli anni a venire”.

Questa revisione delle idee e dei valori è già accaduta con il grande allargamento ad Est avviatosi nel 1991 con gli accordi di associazione. E ciò potrebbe ripetersi anche oggi con un ulteriore allargamento verso la penisola dei Balcani occidentali, un territorio che, come abbiamo visto, è stato escluso dall’identità europea per millenni e potrebbe nei prossimi anni (ri)entrare a farne parte. Gli ultimi negoziati di adesione avviati nel 2022 con Montenegro, Serbia, Kosovo, Albania e Macedonia del Nord riaprono la strada a quella “unificazione dell’Europa” di cui parlava Romano Prodi quando era alla guida della Commissione europea.

Ma ancora una volta, questo slancio dell’Unione ad accogliere nuovi Stati al proprio interno avviene in un momento di crisi valoriale della comunità. Dopo la forte unità ai tempi della pandemia da Covid-19, l’Unione si è scoperta di nuovo debole e divisa al proprio interno a seguito delle numerose crisi: l’aggressione russa in Ucraina, la dipendenza energetica da Paesi esteri, il conseguente approvvigionamento da fonti terze portato avanti dagli Stati in ordine sparso, la controversa presa di posizione nella guerra condotta da Israele. Tutto ciò potrebbe almeno in parte essere risolto da questo allargamento, utile a infondere un nuovo senso di coesione e di responsabilità come attore geopolitico. Detto questo, bisogna porre attenzione però anche al fatto che un’eventuale Europa a 32 richiederebbe riforme istituzionali importanti e con esse l’apertura di storiche fratture ideologiche su temi quali la politica estera e la sicurezza comune.

Nel suo articolo apparso su Strategic Europe il 14 novembre 2023, Judy Dempsey nota come “nel fare l’annuncio dell’8 novembre riguardo al Pacchetto di Allargamento del 2023, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha evitato qualsiasi menzione del fatto che l’Ue debba affrontare le sue carenze prima di ampliare i suoi confini”. È un sintomo evidente del timore europeo di doversi scontrare nuovamente con le proprie debolezze interne nel momento in cui si cerca di ampliare i propri confini. La capacità di slegarsi dalle antiche logiche di definizione di sé solo nel momento in cui realtà esterne entrano in contatto con l’Europa, potrebbe condurci finalmente verso un’Unione tale da concepirsi come soggetto autonomo, in grado di contrastare le contraddizioni interne in maniera consapevole.

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