A vedere i risultati delle ultime elezioni austriache, olandesi, bulgare e ora francesi, sembra che nel vecchio continente la risposta migliore alla globalizzazione sia proprio l’Europa. Ma sarebbe sbagliato cantare vittoria. La Francia può farlo, avendo eletto al ballottaggio il suo nuovo Presidente della Repubblica, uscendo dall’incubo isolazionista, ma non l’Unione Europea. Sarebbe illusorio pensare che la vittoria di Emmanuel Macron alle Presidenziali francesi contro Marine Le Pen solo perché si è verificata, spazzerà via come per incanto tutti i problemi della comunità. Intanto, perché lo stesso nuovo presidente francese ora dovrà bissare il successo alle consultazioni politiche di giugno, dove dovrà costruire un partito vero o fare alleanze con gollisti e socialisti. E poi perché i veri nodi da affrontare il paese transalpino li ha tutti dentro i propri confini – terrorismo, disoccupazione, rilancio industriale – piuttosto che a Bruxelles, dove sarà ribadita l’alleanza storica con la Germania che le ha permesso dal 2005 di stare sempre sopra il tetto del 3% senza avere mai conseguenze.
La Francia si è certamente buttata alle spalle la paura di un governo xenofobo, antieuropeista e di destra, ma per l’Italia e molti altri paesi, i temi da affrontare con urgenza resteranno gli stessi esistenti prima del ballottaggio tra il giovane leader di En Marche e la numero uno del Front National: immigrazione, lavoro, vincoli di bilancio, sicurezza comune, integrazione sociale ed economica.
La società europea è slabbrata, sfiancata da ormai dieci anni di crisi, un’eternità. Non c’è un vero progetto di rilancio della costruzione europea, se si fa eccezione dei pur timidi cinque punti programmatici di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, che ha subito plaudito alla vittoria larghissima di Macron. All’Unione monetaria se ne è aggiunta una bancaria, zoppa perché la vigilanza centrale strangola le piccole banche, mentre manca invece la tutela comune dei depositi come un’unione fiscale. Le istanze di oltre trecento milioni di cittadini dell’Eurozona stentano così a trovare risposte.
In questo decennio i rapporti di forza sono completamente cambiati, non bastano più i libri bianchi, servono riforme.
La tirannia della finanza è costata agli stati 15 trilioni di dollari per salvare banche, assicurazioni e fondi, mentre si è calcolato che con la dematerializzazione di molte transazioni finanziarie, quasi l’80% dei 120 trilioni di dollari di azioni scambiati annualmente sulle borse mondiali perseguano finalità speculative. Il lavoro di una volta non esiste.
Alcuni numeri sono emblematici. Negli Stati Uniti, il paese che più degli altri ha mostrato capacità di rialzarsi dalla crisi e tassi di occupazione molto buoni, l’1 per mille della popolazione ha goduto del 60% dell’aumento della ricchezza nazionale, percentuale che sale al 90% se si considera l’1% degli americani. E prima dell’avvento di Trump. Secondo Forbes, entro il 2020 il 50% degli individui lavorerà almeno in parte come free lance ed è molto probabile che guadagnerà di meno.
Secondo un rapporto della Joseph Rowntree Foundation, in Gran Bretagna quattro lavoratori sottopagati su cinque non riescono ad ottenere salari decenti neanche dopo dieci anni, mentre il 30% delle persone in età lavorativa non può permettersi un piano pensionistico privato. In tutto, sono 13 milioni coloro che vivono sotto la soglia di povertà.
Anche in Italia, l’impatto della doppia recessione sui redditi delle famiglie è stato notevole. Nei nuclei con capo-famiglia dipendente, ha ricordato la Banca d’Italia, il calo del reddito equivalente ha superato il 10% e ancora più forte è stato per i lavoratori autonomi.
L’impoverimento generale della classe media va di pari passo con l’aumento delle diseguaglianze, la sparizione del lavoro tradizionale, l’illusione di sopperire con la digitalizzazione la mancanza di opportunità.
Negli Stati Uniti questo slittamento sociale è stata la benzina della vittoria di Donald Trump; in Gran Bretagna si è pensato di dare la colpa all’Unione decretando la Brexit.
La vittoria di Macron è sicuramente una boccata d’aria fresca per l’Europa, ma il giovane ex finanziere potrà far ben poco nel rilancio dell’integrazione comunitaria senza il supporto non vassallesco dei paesi fondatori, a cominciare proprio dall’Italia, che già oggi si illude di poter replicare il progetto vincente del giovane fenomeno, senza avere una storia alle spalle ne’ una legge elettorale che premia un fronte europeista invece di un altro.
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