C’è un motivo preciso per cui il discorso dell’autunno scorso di Emmanuel Macron alla Sorbona è importante anche gli italiani. È frutto di una strategia che guarda lontano, di cui dovrebbero fare tesoro. Quest’anno cadono tre anniversari storici per la Francia: i cento anni della pace siglata con la Germania e l’Inghilterra dopo la prima guerra mondiale (11 novembre 1918), i sessant’anni dalla nascita della quinta repubblica che garantisce da allora stabilità di governo (4 ottobre 1958) e il mezzo secolo dal maggio del ’68, che ha sancito l’ingresso nell’era contemporanea di tutte le democrazie occidentali. E il Presidente della Repubblica vuole celebrarli in anticipo, brindando ad un accordo che almeno nei suoi piani può diventare storico. Il prossimo 22 gennaio 2018 i parlamenti francese e tedesco ratificheranno l’intesa per un’integrazione tra i due paesi ancora più forte dopo un’altra firma importante, quella del Patto dell’Eliseo del 1963.

Qualcuno pensa che sarà difficile, visto che la Germania, a cento giorni dalle elezioni, è ancora priva di un governo, e la Francia soffre di un sovranismo vecchio stile alla De Gaulle, ancora tutto da rieditare in chiave macroniana. Altri, e chi scrive è tra questi, temono invece che questa alleanza, che vuole rinvigorire lo storico Direttorio Parigi-Berlino che regge da sempre le sorti dell’Unione Europea, sia un modo, nel sedicesimo anniversario della nascita dell’euro, per costruire un mercato unico a loro immagine e somiglianza, con la garanzia che se un domani tutta l’architettura imploderà, ci sarà comunque un asse intorno al quale far ruotare le due principali economie del continente. Con l’Italia a far da spettatrice.

C’è poi una terza via ed è quella che sta immaginando, giustamente, il premier Paolo Gentiloni che, dopo aver incontrato a Roma Macron, ha posto le basi per un Trattato Roma-Parigi che punti a rafforzare i rapporti tra i due paesi soprattutto in materia di immigrazione e gestione della stessa. Non sarà facile, neanche questo. Il Trattato del Quirinale, come è già stato ribattezzato, dovrà seppellire la diffidenza che da almeno due secoli aleggia in tutti i rapporti diplomatici ed economici a cavallo delle Alpi. Non si può dimenticare che se la Francia nei fatti ha più volte infilzato l’amica Italia, scalando le sue aziende più importanti o guidandone direttamente le sorti, dall’altra, i cugini hanno ripagato i lontani alleati della guerra di indipendenza con due tradimenti, prima astenendosi da intervenire durante la guerra franco-prussiana e una seconda volta aggredendo nella seconda guerra mondiale chi pochi mesi prima era al sua fianco dai tempi della Grande Guerra. Sono cose che continuano a pesare, soprattutto nella memoria. Se sono accordi fioriranno quindi dopo le elezioni, quando il quadro sarà, si spera, più chiaro.

 

Ad oggi, a parte l’attenzione di Gentiloni a coltivare chi potrebbe trovarsi senza l’amico ritrovato tedesco, suscita perciò preoccupazione che nessun partito abbia colto l’importanza dei grandi movimenti di politica estera che sono in corso dopo la Brexit. Mentre i politici italiani si accapigliano per il costo dei sacchetti di plastica e fanno a gara per promettere riforme impossibili, i loro colleghi francesi e tedeschi si impegnano oggi per una strategia comune domani. Tutto il Parlamento e non solo i due capi di Stato e di governo. Con un’aggravante. La campagna elettorale in corso tratta le formiche italiane come fossero diventate delle inguaribili cicale, cui non interessa il ruolo del loro paese in Europa e nel mondo, quando potrebbero rappresentarne una forza trainante, pur vivendo nel paese col terzo debito ma non la terza economia del mondo. Le perle da sperperare appena rientrati dal seggio sono tantissime. Pensioni minime più alte e uscite più vicine, abolizione senza copertura della legge Fornero, cassazione del Jobs Act, flat tax, reddito di cittadinanza o di dignità che dir si voglia, eliminazione del canone Rai e delle tasse universitarie e a breve, c’è quasi da scommetterci, anche del bollo auto. Come non fosse vero che il debito pubblico in questa legislatura è aumentato di 300 miliardi di euro in termini assoluti. Nessuno che abbia proposto ai connazionali cui chiede il voto cosa fare dal 5 marzo in poi: continuare a vivere di export grazie alla forza delle Pmi e di improvvisazione nello scacchiere mondiale o mettere a punto una nuova programmazione economica degna di un grande stato?

Non che sia un peccato provare a migliorare il benessere di 60 milioni di persone ma non basterebbe Freud per spiegare questa rimozione collettiva del problema dei problemi: l’enorme debito pubblico. Su cui, una volta siglata l’alleanza, né Emmanuel Macron, che incontrando Gentiloni ne ha lodato le capacità effettuando un endorsement a suo favore, né Angela Merkel o chi per lei, saranno poi disposti a fare sconti a Roma. L’unica vera promessa sottintesa dagli appena abbozzati programmi di tutti i partiti, dal centrodestra al centro sinistra, passando per il Movimento Cinque Stelle, è infatti quella di aumentare inevitabilmente l’indebitamento. Sparita la parola Europa, sparito, per fortuna il referendum sull’euro, latita anche ogni proposta su come cambiare l’Unione.

Mentre tedeschi e francesi riscrivono patti e regole, spartendosi ruoli chiave nell’euroburocrazia (Presidente della Banca centrale europea, ministro unico delle Finanze, agenzie di vario genere), il Trattato del Quirinale rischia di arrivare troppo tardi a gestire solo le emergenze.