L’Europa è troppo antica e carica di storia per cercare di capirla con la cronaca del momento. C’è una lettura diversa dall’ortodossa tradizione che fissa la nascita dell’Europa unita nel momento in cui alcuni paesi un tempo in guerra decisero di metter in comune l’acciaio con cui forgiavano le armi per uccidersi a vicenda. Ed è quella del sessantotto di Praga, Varsavia, Belgrado, non solo fulcro del ricongiungimento dell’Est all’Ovest, ma matrice delle tante pulsioni disgregatrici di oggi. Lo spunto per capire il senso delle tante celebrazioni di questo periodo, i trent’anni della caduta del muro di Berlino, della rivoluzione di velluto di Praga e della caduta tragica e sanguinosa del tiranno romeno Ceasescu, lo offre un grande scrittore come Milan Kundera e nasce da quello che accadde cinquanta anni fa.

In un articolo pubblicato nell’ormai lontano 1983 dalla rivista Débat,con il titolo “Un Occidente sotto sequestro, o la tragedia dell’Europa centrale”, l’autore ceco insorge contro la divisione artificiale che aveva tagliato in due il continente deportando all’Est il mosaico delle piccole nazioni centro-europee, situate geograficamente al centro, culturalmente in Occidente e politicamente ad Est, col risultato di proiettarle fuori dalla loro stessa storia. E spiega quello che sta accadendo ai nostri tempi. L’Europa nata nel 1957, sostiene Kundera, è il centro delle contraddizioni piuttosto che il big bang dell’Ue. Non è più un impero in via di consolidamento e di unificazione, e neppure quella struttura federale chiamata ad assorbire progressivamente gli Stati che la compongono, auspicata da Altiero Spinelli, ma una zona rossa ove si scontrano due modi di concepire la società: quello neo imperiale di Bruxelles, che si concretizza nell’unificazione forzata, nell’armonizzazione teutonica delle norme e nell’imposizione delle stesse; e quello rivoluzionario, dei praghesi e prima ancora di tutti i popoli che si erano sollevati contro ogni volontà di dominio e di assimilazione con vero spirito europeista. Queste due forze contrapposte sono le stesse che si fronteggiano ancora e generano l’instabilità strutturale dell’architettura comunitaria che cede sempre di più sotto la spinta dei tantissimi movimenti populisti. Da una parte l’Ue del patto di Aquisgrana, dall’altra l’Europa dellex cortina di ferro, che mostra i muscoli ma ha preso 280 miliardi di euro di contributi comunitari nell’ultimo quinquennio contro i 260 dell’Occidente.

La rivolta ungherese nel 1956, la primavera di Praga e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968, gli innumerevoli moti polacchi, ieri preludi del crollo finale del sistema sovietico, sono così l’asse attorno al quale è nato il criticismo sovranista del gruppo di Visegrad, che tanto è piaciuto al governo italiano a trazione Salvini-Di Maio. Questi momenti storici, unendo i paesi del Patto di Varsavia a quelli dell’Alleanza Atlantica, hanno costituito l’Europa molto più dei suoi trattati, che invece hanno costruito quasi a tavolino l’Unione.

E quella che appare come l’insostenibile leggerezza dell’integrazione comunitaria, al centro dell’azione demolitrice di alcuni leader ungheresi e polacchi, nasce da ribellioni lontane rimaste però nel dna di quei popoli. La storia viene quindi in soccorso per capire cosa si muove da quelle parti. Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, hanno avuto una vita movimentata, frammentata, spesso drammatica, e una tradizione di Stato meno robusta di quella dei grandi popoli europei, fondatori dell’Ue. Strette fra i tedeschi da una parte, e i russi dall’altra, queste nazioni dimenticate dalla carta geografica, hanno speso mille energie nella lotta per la loro sopravvivenza, contrastando in oltre cento anni l’impero austroungarico, le invasioni di Hitler, il giogo di Stalin. E oggi si sentono assorbite da un nuovo Moloch, quell’unione di diversità che tanto gli ricorda le vecchie annessioni. Altro che fronte comune su poche centinaia di migranti da ricollocare, in ballo c’è la stanza dei bottoni. Quella che gli viene negata da oltre un secolo.

Possiamo dire, sinceramente, che sentiamo anche noi italiani come oppressiva la partecipazione europea, non avendo vissuto per decenni nel cuore di tenebra sovietico? Il nazionalismo nostrano, con basi politiche ed economiche opposte (per dirne una: Budapest incassa oltre 3 miliardi netti dall’Ue, più o meno quelli che invece versa in più Roma) ha qualcosa in comune con quello dei paesi dell’ex impero di Francesco Giuseppe? Ovviamente no.

La voglia di secessione di Ungheria e alleati nasce da quelle lontane rivoluzioni che, a differenza degli Stati Uniti, sono rimaste incompiute e hanno trovato nella guerra al nuovo nemico di Bruxelles un modo per completarsi. Forti del fatto che in molti hanno nostalgia della forza distruttiva del nazionalismo novecentesco che annientò minoranze, opposizione e libertà. Anche la loro.

Lo spirito di quel sessantotto sequestrato potrebbe invece ancora unire ciò che i regimi volevano cancellare perché nasceva proprio dall’essenza europea. Ma occorre agire rapidamente prima che venga eretto il muro di Visegrad.