di Enrico Peschiera

Il 9 luglio la Corte Costituzionale ha dichiarato che i cosiddetti decreti sicurezza violano l’articolo 3 della costituzione, che sancisce l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La Consulta ritiene “irrazionale” la norma che esclude i richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica, impedendone il rilascio del certificato di residenza e del documento d’identità e l’accesso ai servizi sociali. In pratica, questa norma che dovrebbe garantire maggiore controllo e sicurezza ha generato l’opposto, esacerbando le già drammatiche disuguaglianze e creando nuovi “invisibili” allo Stato.

Il giorno stesso, la ministra dell’interno Luciana Lamorgese ha presentato ai partiti di maggioranza la bozza sulle modifiche ai decreti firmati dall’allora ministro Matteo Salvini. Tra i punti su cui ci sarebbe un accordo tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico c’è anche il recupero del sistema di accoglienza diffuso, lo Sprar. L’intero sistema era stato chiuso ai richiedenti asilo e limitato ai soli detentori del permesso di protezione umanitaria e ai minori. Il tanto criticato Sprar, affidato ai Comuni su base volontaria, era in realtà l’unica legislazione virtuosa che permetteva progetti di accoglienza e integrazione sul lungo termine.

Torniamo dunque all’inizio di giugno, quando un altro organo, il Consiglio di Stato, ha sconfessato la chiusura dei progetti Sprar a Riace, l’ormai celebre “villaggio globale”. La decisione di revocare i fondi e di ricollocare altrove i circa settecento richiedenti asilo è stata giudicata quantomeno frettolosa: nonostante alcuni conclamati vizi amministrativi nella gestione del progetto, vi erano “riconosciuti ed innegabili meriti” che avrebbero giocato “un ruolo decisivo nel ritenere superate – e non penalizzanti – le criticità”.

Sono passati circa due anni da quella decisione che ha cancellato una realtà di multiculturalismo e inclusione faticosamente costruita negli anni dall’ex sindaco Mimmo Lucano insieme ai cittadini riacesi. Nel piccolo borgo calabrese, le strade sono tornate vuote e non si sente più il chiasso dei bambini che giocano. Era il 1998 quando una nave di profughi dal Kurdistan si arenò sulla spiaggia di Riace, e fu in quell’occasione che Lucano comprese l’opportunità che queste persone stavano portando al suo paese natale.

Riace infatti non è stata soltanto un modello di integrazione, bensì un modello di sviluppo sostenibile. Come tutti i modelli, si presuppone – e si auspica – che sia applicabile altrove. Osteggiato dal populismo sovranista, il modello Riace rappresenta un esempio reale di come l’immigrazione possa trasformarsi in opportunità di rilancio economico, come ha sottolineato Thomas Piketty durante la crisi migratoria del 2015.

In cosa consiste, dunque, la semplice quanto innovativa visione che vede Riace come archetipo?

Prima di tutto, i migranti hanno ripopolato un paese che era desertificato. Riace, così come nei numerosi borghi italiani e come in tante zone rurali di tutta Europa, ha visto la sua popolazione emigrare progressivamente sin dall’inizio del secolo scorso, e in maniera ancor più drammatica nel dopoguerra. Se agli inizi del Novecento la popolazione era di circa 2500 abitanti, nel 2001 erano diventati 1600, con una sola nascita registrata. L’emigrazione e la concentrazione nelle aree urbane hanno causato un forte spopolamento e il conseguente alzamento dell’età media, lasciando poche prospettive di vita e di rilancio in un paese dal grandissimo valore storico e paesaggistico. L’idea di Lucano fu semplice quanto rivoluzionaria: dare ai migranti di oggi la casa di un migrante di ieri. Anziché dedicare una struttura apposita all’accoglienza, modello attuato nella maggior parte degli Sprar con conseguenti costi elevati e il rischio di ghettizzazione in strutture e zone densamente popolate, a Riace i richiedenti asilo furono direttamente inclusi nella vita cittadina.

Sono molti i vantaggi creati da questa scelta: anzitutto la riqualificazione di un patrimonio immobiliare che sarebbe altrimenti decaduto e il ripopolamento di Comuni destinati a morire. Non è un mistero che questa situazione affligge molte località sparse su tutto il territorio nazionale: numerosi sindaci di piccole municipalità hanno introdotto misure volte a invertire lo scoraggiante trend demografico, come le case a 1 euro o gli incentivi per giovani coppie con bambini.

In secondo luogo, l’arrivo dei migranti – contrariamente a un luogo comune molto diffuso – non ha tolto lavoro agli italiani, anzi ne ha creato: riaprendo scuole, locali e laboratori, investendo nell’agricoltura delle campagne circostanti, la comunità di Riace è rinata riscoprendo uno stile di vita sostenibile, che sapeva di un tempo lontano. Prima che tanti giovani riacesi andassero a cercare fortuna altrove, nelle fumose città del Nord o imbarcandosi in qualche piroscafo diretto in America. Quei giovani, oggi, hanno la pelle un po’ più scura ma la stessa speranza di una vita migliore, che in tanti avevano trovato a Riace.

Una piccola comunità che ha accolto decine di giovani che sarebbero altrimenti finiti nelle tendopoli poco lontane, a raccogliere pomodori per 2 euro l’ora. Un sistema efficiente che ha giovato a tutti, riacesi e migranti. Un villaggio globale, un crocevia di culture in miniatura, lontano dalle grandi metropoli. Un modello di integrazione, ma non solo.

Tutto ciò, infatti, deve farci riflettere e trarre delle lezioni che vanno oltre l’aspetto migratorio, e sconfinano in domande che riguardano la concezione stessa della nostra società e del futuro che vogliamo darle. La crisi climatica e l’insostenibilità della vita urbana estesa a tutti erano fenomeni evidenti ben prima della crisi del Covid-19. Quest’ultima, tuttavia, ci ha aperto ancor più gli occhi sul nostro impatto sulla natura, e ha per di più mostrato che è possibile, per i più fortunati, lavorare da casa, senza dover spostare l’auto ogni mattina per andare in ufficio. È possibile, oggi, accedere a qualunque tipo di informazione in tempo reale da qualsiasi posto nel mondo: se un tempo si aveva accesso a cultura e istruzione quasi prevalentemente nei centri urbani, oggi, grazie al digitale, queste differenze si sono assottigliate di molto anche se ciò non significa che si siano cancellate le diseguaglianze. Il dato certo è che non tutti possiamo vivere in centro città, conducendo uno stile di vita incompatibile con ciò che la natura ci offre.

È forse così impensabile credere in Riace come modello per tutti? Non è forse giunto il momento di trattare il fenomeno migratorio con lungimiranza, valorizzandone le opportunità? Non dovremmo finalmente chiederci a quale stile di vita vogliamo ispirarci, e ripensare la nostra società con più armonia e rispetto per la natura?

*La redazione non ha trovato eventuali proprietari degli scatti qui utilizzati, nel caso ottempererà a cambiarli qualora segnalati dagli autori