di Gino Toledo

Se Matteo Renzi vuole avere ancora una chance di tornare a Palazzo Chigi deve davvero darsi da fare per cambiare il Fiscal Compact, vera ipoteca sul futuro dell’Italia. L’ha promesso e ora può farlo, dopo aver vinto le primarie del Pd.
Silvio Berlusconi l’ha concordato. Mario Monti l’ha trasformato in legge. Proprio Renzi ha provato a ignorarlo. Ma Paolo Gentiloni dovrà rispettarlo alla lettera, per evitare una dura procedura d’infrazione di Bruxelles e varare una manovra per il 2018 di 20-30 miliardi di euro, a meno che non gli si chieda di farsi da parte prima della prossima primavera. Il nuovo segretario dei democratici a questo punto deve disinnescare una bomba ad orologeria, che scatterà pesantemente quando si chiuderà il paracadute anti spread della Banca Centrale Europea.
Serve un cambiamento prima che il Fiscal diventi definitivamente un trattato europeo, cosa che accadrà entro il 2017. C’è quindi poco tempo. Ma cosa vuole cambiare l’ex premier? Serve una lettura attenta dell’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Ue per capire in cosa consista l’accordo sulla riduzione del debito e il pareggio di bilancio.
Su quindici articoli di Fiscal Compact, braccio armato di quell’articolo 126, sono due quelli che veramente rappresentano la carta costituzionale dei bilanci nazionali. L’articolo 3 del Fiscal fissa le regole fondamentali del controllo dei bilanci pubblici, specificando che i paesi sottoscrittori del Trattato ‘’possono deviare dall’obiettivo di medio termine solo in circostanze eccezionali’’. Eventi che l’Italia sta vivendo sulla sua pelle, con la concessa flessibilità da 19 miliardi euro: terremoti, gestione migranti, sicurezza, recessione. In queste senso, le maglie dell’austerità sembrerebbero allentarsi, ma la norma ricorda che tale deviazione deve essere ‘’temporanea’’ senza compromettere la sostenibilità del bilancio a medio termine. In caso di ‘’significative deviazioni’’ dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a questo, dovrà scattare una correzione dei conti pubblici. E’ il ”nostro caso”. Qualche paracadute da aprire c’è ancora.
L’articolo 4 del Trattato del Fiscal Compact si riferisce infatti al finora oscuro ‘’criterio del debito’’, su cui politici ed economisti si esercitano da tempo, paventando per Roma manovre che vanno da 50 miliardi di euro a pochi spiccioli. Anche in questo caso un approfondimento tecnico è fondamentale. Secondo l’articolo, quando il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo eccede il valore del 60%, le parti contraenti lo riducono ad un tasso medio di un ventesimo per anno.
Con una clausola di salvaguardia, fondamentale per chi non cresce com l’Italia e ha un debito di oltre 2.200 miliardi di euro. La clausola prevede la possibilità di valutare la riduzione come media nell’ambito di un triennio, e non anno per anno, oppure di conteggiare l’influenza del ciclo sull’andamento del debito (se l’economia non cresce il rapporto debito-Pil inevitabilmente peggiora). Nell’esame del percorso di riduzione dell’eccedenza di debito gli uomini della Commissione Europea dovranno e potranno, considerare i seguenti fattori significativi: 1) la posizione in termini di risparmi netti del settore privato; 2) il livello del saldo primario; 3) l’attuazione di politiche nel contesto di una strategia di crescita comune dell’Unione; 4) l’attuazione di riforme delle pensioni. Sono quasi tutte variabili che pongono l’Italia in cima ai paesi più virtuosi.
Ma il triennio è passato e il debito continua a crescere, Roma deve assolutamente ottenere un allungamento di questa scadenza.
E’ qui che nascono i problemi futuri per Roma e Germania e Commissione Europea lo sanno benissimo e ci aspettano al varco. Anche perché le due condizioni comunitarie aggiuntive per essere in regola con la norma sul debito, sono toste: una crescita reale combinata con l’inflazione che arrivi al 3%, per attutire l’entità del rientro.
Ad oggi questa combinazione non c’è, anche se la fiammata inflattiva di aprile all’1,8%, combinata ad una crescita intorno all’1%, fa ben sperare. Il Pil nominale (crescita+inflazione) è infatti quello usato per il fatidico rapporto debito-Pil: se sale il secondo, la divisione fa meno paura.
Ma se i prossimi mesi non condurranno a questo nuovo 3% di crescita nominale, potrà scattare la norma comunitaria più stringente, che spingerà appunto l’Italia, con le elezioni vicine, a rifare i conti. A meno che Matteo Renzi, forte della vittoria ai gazebo, non riesca ad intervenire in tempo per disinnescare la tagliola sul debito.
Sarebbe una mossa importante che lo riporterebbe al centro dell’attenzione politica nazionale e europea, senza dover per forza rincorrere l’euroscetticismo montante di Lega e Cinquestelle.