Un altro giro di elezioni in un paese dell’Unione, un altro esito significativo, inevitabilmente destinato a segnare il panorama politico-istituzionale europeo. L’elettorato italiano si è espresso, una nuova pagina si apre nell’ambito della vita repubblicana: il Parlamento presenta una maggioranza del tutto innovativa rispetto al dato politico tradizionale. È il trionfo di partiti fortemente critici nei confronti del sistema, frutto di una rottura del vincolo fiduciario attivo tra istituti rappresentativi ed elettori, nonché premessa ad un’era nuova. Nell’affermazione di questo nuovo ordine, emerge un dato: il crollo del PD, espressione dei tre governi succedutisi nel corso della XVII legislatura, sceso dal 25% (2013) all’attuale 18%. In questo elemento si sommano da un lato l’ormai strutturale difficoltà patita dal modello socialdemocratico continentale, dall’altro una crisi nazionale, che pone l’Italia all’avanguardia, in quanto laboratorio di un bipolarismo che non riconosce alcun diritto di cittadinanza al fronte progressista. Di Maio contro Salvini, M5S contro Lega: tertium non datur. Questa rivolta italiana contro l’establishment segue, del resto, una tendenza già avviata nel resto d’Europa: nel 2017 la Francia ha evitato un risultato simile solo grazie al sistema a doppio turno e all’affermazione di Macron, alfiere di un’apertura, che, pur non scevra da contraddizioni, ha saputo divenire antitesi elettoralmente credibile al sovranismo di Marine Le Pen. Nel 2016 gli Stati Uniti hanno eletto Donald Trump, cinque mesi dopo il voto degli Inglesi, a favore della Brexit.

Ebbene, queste due forze hanno saputo interpretare le istanze di un fronte socialmente e territorialmente vasto, trasversale, ottenendo all’incirca il 50% dei suffragi. Nello specifico, i Cinquestelle, con più del 30% dei consensi, sono il primo partito italiano, mentre nella coalizione di centro-destra la Lega post-secessionista ha superato Forza Italia e la sua vocazione moderata. Le ragioni di questa rivoluzione copernicana? La crisi dei migranti nel Mediterraneo, gestita male da Bruxelles e da Roma, la paura di un’invasione straniera e di una parallela sostituzione etnica, la crisi economica e il disagio sociale, connesso ad una globalizzazione mai realmente controbilanciata da misure di efficace sicurezza sociale.

Il tema dei migranti, trasformato in arma politica dai vincitori, che promettono una maggiore salvaguardia dei confini e delle identità nazionali, è diventato dominante nella politica occidentale. Questo pone una sfida importante ai leader politici che credono ancora nelle potenzialità e nelle opportunità di un mondo multipolare e interconnesso. Lo stesso vale per le principali istituzioni costruite, dopo la seconda guerra mondiale, per promuovere e proteggere la cooperazione internazionale, come l’Unione europea o le Nazioni Unite. Tuttavia, con questa nuova ondata nazionalistica potrebbe diventare più difficile difendere la causa di un interesse condiviso in settori inerenti il trasferimento di uomini e merci, come d’altronde sembrerebbero dimostrare le iniziative assunte in materia commerciale dalla presidenza Trump. In questo mare magnum, a chi volgere lo sguardo, a chi affidare il compito di arginare, spiegare, alimentare le ragioni di un’alternativa democratica, che non individui necessariamente nel ritorno allo stato nazione il punto di riferimento dell’agenda politica? Alla Sinistra, forse. Ma, quale Sinistra? Certo, la crisi del mondo riformista ha radici lontane nel tempo e nello spazio: la svolta neoliberista degli anni ’80, l’esternalizzazione, la parcellizzazione del lavoro e l’atomizzazione di uno storico blocco di riferimento, la classe operaia. Ma, nello scenario attuale, questa progressiva marginalizzazione si esaurisce in un’unica parola: sicurezza. Incapacità di fornire sicurezza, protezione, tutela. Incapacità di prospettare risposte che giustifichino, risolvano, appianino tensioni. Incapacità di fronteggiare l’aumento endemico delle disuguaglianze e di palesare il miraggio di una pur sfuggente giustizia sociale, che privata di un quadro di riferimento ideologico, parrebbe garantita, da proposte quali la flat tax e il reddito di cittadinanza. La terza via blairiana è ormai sbarrata. Si riaffacciano ideali antichi e nobili, veicolati da Corbyn e da Mélenchon ma fondati sull’anacronismo. Occorre una nuova rivoluzione progressista, che sappia guardare allo scacchiere internazionale, interfacciarsi con realtà multipolari, con una pluralità di soggetti che non rispondono ad alcun referente geopolitico, senza dimenticare gli ultimi, i marginali.

Le sfide della contemporaneità necessitano di risposte organiche, non esauribili in una dinamica rigidamente localistica e, dunque, autoreferenziale. Occorre, pertanto, inserire l’Italia in un contesto più ampio, in grado di garantire quella sicurezza che lo stato nazione non è più in grado di fornire: gli Stati Uniti d’Europa. Insomma, l’atto primo della nuova sinistra post-moderna ci coinvolge e ci interroga in quanto individui e in quanto cittadini delle piccole patrie: ci esorta a capire la necessità di aggregare, di superare i confini, per poter essere in grado di giocare un ruolo. Divenire veramente Europa, per non scomparire.

Autore