di Francesco Luna

Usciti sconfitti alle Europee di maggio, il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle si accomodano uno accanto all’altro sulla pelle rossa delle sedie del Consiglio dei Ministri, lasciate inopinatamente vuote dal colpo di sole ferragostano di Matteo Salvini. Ministri vecchi e solo apparentemente nuovi prendono posto con esitazione nel grande salone circolare, insospettiti gli uni dagli altri, senza sorrisi. Si guardano di sottecchi, come a controllarsi gli uni con gli altri, come se l’altro dovesse da un momento all’altro sferrare un colpo mortale a tradimento. Costretti a convivere e a dimenticare gli insulti del passato, i rappresentanti delle due forze maggiori della maggioranza giustificano la loro scomoda convivenza come una scelta necessaria, per il “bene del Paese”, e non come un’operazione di puro potere, assolutamente legittima sul piano costituzionale, ma apparentemente priva di senso politico e di prospettive credibili.

La domanda è: dove può portare un’operazione del genere? Fra un festeggiamento e l’altro, nessuno a sinistra e nei 5 Stelle sembra porsi seriamente la domanda del “dopo”. Nessuno si chiede dove porterà questo Conte-bis, che rispetto al Conte-uno non ha più Salvini ed ha una serie di ministri di seconda fila del PD al posto dei leghisti. Nessuno sa quale sarà l’approdo, una volta che il nuovo esecutivo dovrà navigare fra gli scogli della imminente Legge di Bilancio. Nessuno sa come si gestiranno le navi delle ONG che adesso si aspettano di entrare senza attese a Lampedusa e ripartire in fretta verso la Libia a trasbordare altre centinaia di migranti dai gommoni. Nessuno ha idea di come bisognerà regolarsi, quando si tratterà di approvare o bocciare le grandi opere pubbliche che i 5 Stelle non vogliono e il PD sì.

Il palazzo del governo è preso, il portone è sbarrato, lo spettro di Salvini, con le sue pretese di “pieni poteri”, è temporaneamente allontanato. Ma presto bisognerà riaprire quel portone e misurarsi con la realtà. Il “mostro” sovranista, che forse si sarebbe potuto distruggere sfidandolo subito a elezioni, è ferito, ma è tutt’altro che domo. La botta è stata forte, ma il Capitano è ancora in piedi e recupererà forze man mano che le contraddizioni dell’alleanza “giallo-rossa” emergeranno, che le inevitabili decisioni difficili che attendono il governo entreranno in agenda, che i primi provvedimenti presi scontenteranno alcuni a vantaggio di altri.

Il PD di Nicola Zingaretti e il Movimento di Luigi Di Maio sono costretti a convivere, ma sanno che presto dovranno aggredirsi come galli da combattimento per sopravvivere. Il PD ha conservato la sua unità, eccezion fatta per i dissensi di Carlo Calenda e Matteo Richetti, ma non ha ottenuto alcuna delle condizioni poste nel momento in cui accettò di avviare le trattative con i 5 Stelle. Il Movimento di Di Maio ha salvato la pelle, ma ha pagato un prezzo salatissimo in termini di credibilità verso un elettorato che in larga parte detesta il PD.

Fra i due non esiste alcun amalgama e manca totalmente quella discontinuità che Zingaretti poneva come condizione primaria. Non c’è un nuovo presidente del Consiglio, non c’è un programma comune (quello presentato non è molto diverso dal “contratto” con la Lega) e soprattutto non c’è una prospettiva di alleanza strategica a medio termine. L’auspicata alleanza alle prossime elezioni in Umbria, Calabria ed Emilia Romagna sembra una prospettiva davvero irrealistica, a meno di un repentino cambio di atmosfera nei rapporti fra alleati.

Dal suo nuovo quartier generale alla Farnesina, intanto, Luigi Di Maio convoca in “splendido isolamento” i suoi ministri come in un esecutivo parallelo e non sembra aver alcuna intenzione di avvicinarsi ulteriormente a quello che fino a pochi giorni fa chiamava il “partito di Bibbiano”. Rivendica da giorni la “continuità” del Conte-bis con il Conte-uno, del quale ha rivendicato l’”ottimo lavoro”, che, dice, dovrà proseguire dopo l’interruzione dovuta alla rottura provocata da Salvini.

Una narrazione, quella del capo politico del Movimento, dove il PD è ridotto a quello che non avrebbe mai dovuto e voluto essere: un donatore di sangue per tenere in vita un governo a trazione grillina, una forza politica che che si sostituisce numericamente alla Lega, ma che non sembra in grado di mutare significativamente la direzione politica dell’esecutivo.

Fra i due maggiori contraenti del patto di governo, quindi, più che l’alleanza auspicata da Zingaretti, sembrano scorgersi in embrione i segnali di una guerra a bassa intensità destinata a trasformarsi presto in uno scontro per la sopravvivenza. La prospettiva di qui alle prossime elezioni sembra essere quella di un nuovo bipolarismo, che veda da una parte la destra a trazione leghista e dall’altra il vincitore della guerra di nervi fra Pd e 5 Stelle. Prima o poi, inevitabilmente, l’esercito della conservazione dell’establishment democratico e quello dell’intransigenza populista grillina saranno chiamati a confrontarsi. E la sensazione è che, alla fine, ne resterà in piedi uno solo.