All’inizio c’è solo qualche ortolano che monta il suo banchetto di frutta e verdura. Poi arrivano i venditori di simit, le ciambelle con il sesamo, colazione preferita sulle rive del Bosforo insieme al çay, il tè servito nel bicchierino a forma di tulipano. Lentamente, il grande Çarşamba pazar, il mercato del mercoledì, prende forma anche nelle vie laterali, affollandosi di donne con il capo coperto, infagottate in soprabiti dai colori tristi. Così diversi dagli abiti colorati che indossavano le loro antenate in epoca ottomana. Ma Fatih, il quartiere all’ombra della moschea voluta nel 1470 da Fatih Sultan Mehmed e ristrutturata con grande spolvero da Recep Tayyip Erdoğan, è il cuore conservatore di Istanbul, da sempre zona povera di immigrazione dall’Anatolia e feudo del AKP (il partito del premier che alle elezioni di novembre ha sfiorato la maggioranza assoluta). Bastano poche fermate di tram per arrivare al Gran Bazar, ai venditori di gioielli e di tappeti, ai ricchi negozi frequentati dai turisti che però, dagli scontri di Gezi Park, hanno iniziato lentamente a disertare la città sul Bosforo.
È la Istanbul monumentale, quella protetta dall’Unesco, con Topkapi, la Moschea Blu e Santa Sofia, che il governo vorrebbe ritrasformare in moschea, con buona pace di Ataturk. Ennesimo colpo alla laicità della Turchia. Ancora qualche fermata di tram e il panorama cambia un’altra volta. Oltre il ponte di Galata, a Karaköy e Tophane, i bar con dj-set si alternano ai ristoranti alla moda, ai boutique hotel, alle gallerie d’arte.
A Istanbul c’è tutto e il contrario di tutto. Ci sono quartieri come Cucurkuma, con le vecchie case shabby-chic e i negozi di antiquari, e altri come Nişantaşı, con palazzi eleganti e gli show room del fashion globale. Ci sono i banchetti dello street food che preparano panini con gli sgombri e i ristoranti panoramici che servono piatti di nuova cucina turca. Ci sono le ragazze con il capo rigorosamente coperto e quelle in minigonna come le loro coetanee di Londra e di Parigi, che bevono shot insieme agli amici, a dispetto delle tasse governative che rendano gli alcolici sempre più cari. Del resto la città con i suoi quasi 20 milioni di abitanti, anche se non ufficiali, è la più grande metropoli europea, con una popolazione giovane, motore di un paese ancora in crescita, nonostante la crisi e la guerra. Una città in continuo e inarrestabile movimento, con grattacieli che crescono come funghi, start-up di nuovi designer, fashion incubator, interi edifici trasformati in gallerie d’arte da fondazioni private, segno di una vitalità artistica a culturale quasi introvabile nel resto d’Europa. Il rovescio della medaglia è una città che nella corsa verso il futuro rischia di stritolare lembi del suo passato. La gentrificazione avanza decisa spinta dalle ruspe e dalla speculazione edilizia. Sulukule, il più antico insediamento rom del mondo, dal 1054 dimora di danzatori e giocolieri che seguivano i cortei imperiali, è stato raso al suolo e i suoi abitanti “deportati” a decine di km di distanza. Stessa fine rischiano di fare i quartieri di Tarlabasi, Fener e Balat, abitati un tempo da armeni, greci, ebrei.
L’intreccio di genti e civiltà hanno reso la città unica e preziosa. Da sempre i viaggiatori europei sono rimasti colpiti da questo mondo sospeso tra due continenti, e anche oggi, nonostante i venti di guerra, non si sfugge all’incantesimo perché Istanbul rappresenta l’immaginario collettivo dell’Oriente. A iniziare dalle cupole delle quasi duemila moschee, che segnato lo skyline cittadino insieme alle decine di grattacieli. Ma ci sono anche le cupole delle sinagoghe sefardite e quelle delle chiese bizantine ricoperte di mosaici d’oro. Segno di stratificazioni temporali e culturali, ma soprattutto di un’abitudine alla convivenza e alla tolleranza. Tanto che quando Colombo partì per il suo viaggio verso le Indie, non riuscì a salpare da Siviglia perché alle rive del Guadalquivir erano attraccate le galee turche mandate dal sovrano Beyazit II a salvare i profughi ebrei cacciati dai re cattolici. Sono passati oltre 500 anni e Istanbul accoglie ancora 500 mila profughi in fuga dalla Siria e decisi a restare sulle rive del Bosforo, avamposto dell’Europa. Anche se il processo di ingresso nell’Unione Europea è lungo e travagliato. Un po’ per la crisi economica europea che ha spinto Erdogan a rivolgere la sua attenzione ai paesi dell’area culturale turca dell’Asia Centrale.
Un po’ per le diffidenze europee causate dalla politica del nuovo sultano. In Turchia oggi sono in affanno libertà di stampa (200 giornalisti in carcere per aver espresso opinioni antigovernative) e di espressione, la tutela dei diritti umani e delle minoranze, per non parlare della questione curda, delle connivenze con Daesh e dei traffici di armi alle frontiere. Intano nel Bosforo, nonostante i recenti attriti, continuano a sfilare gli incrociatori russi diretti in Siria, insieme ai portacontainer e alle petroliere. Mentre i vapur dei pendolari fanno la spola tra le due rive. Da qui l’Europa sembra ancora lontana.