A pochi giorni dal discorso del Presidente della Commissione Europea Juncker sullo Stato dell’Unione, in cui si delineeranno le prospettive per il futuro dell’Europa, e dopo un’estate in cui in nome di una presunta identità europea si sono tollerate azioni di estrema destra come “Defend Europe” – fallimentare iniziativa anti-migranti del movimento estremista “Generazione Identitaria” – sembra opportuno chiedersi cosa sia, davvero, l’identità europea, e cosa vada davvero difeso in futuro. La questione non è scontata. Cosa vuol dire, oggi, essere europei?

Il nodo della questione risiede in quello che il filosofo europeo Tzvetan Todorov individuò come primo nemico della democrazia: “la semplificazione che riduce il plurale al singolo, e apre dunque la via all’eccesso”. In un’Europa composita e plurale, che ha fatto dell’unità nella diversità il proprio motto, voler ridurre l’identità europea a una singola definizione è un esercizio sterile quando non controproducente. Alcuni giovani Erasmus potrebbero dirvi che ci si sente europei a vivere altrove in Europa, a condividere pezzi del proprio percorso con altri giovani europei, a imparare una lingua straniera, perché quando parliamo la stessa lingua, come disse Trevor Noah, ci rendiamo conto di essere in fondo tutti uguali, tutti umani. C’è chi tuttavia non ha questa possibilità, e non per questo è meno europeo. L’identità europea non può essere ridotta a un viaggio studio nel continente, né al semplice vivere altrove. L’Europa è anche questo, è senz’altro una maggiore mobilità internazionale, ma è molto di più. Altri giovani e meno giovani nel continente hanno lanciato una battaglia anti-migranti e anti-Islam in nome dell’identità europea “tradizionale bianca e cristiana”. Non è semplice controbattere di fronte a più di mille anni di storia Euro- Mediterranea, da Poitiers a Lepanto passando per Granada, costellata di battaglie fra un Mediterraneo europeo e cristiano e un Mediterraneo afro-asiatico musulmano. Eppure ancora una volta la definizione è riduttiva, perché la Storia è già cambiata e cambierà ancora e vi sono europei musulmani, europei di ogni religione ed europei con la pelle di ogni colore. Nessuno di questi elementi può e deve essere determinante nel definire cosa voglia dire essere europei.

Il punto è che le identità sono plurali. Sono plurali all’interno dei territori, come quello europeo che raccoglie miriadi di culture regionali diverse; sono plurali all’interno dell’individuo, la cui identità è un insieme di fattori di genere, di età, di colore della pelle, di religione, di affiliazione politica e di associazionismo, di gusti, di hobby, di sottoculture, di dialetti. Quasi dieci anni fa Amin Maalouf, scrittore franco-libanese e arabo-cristiano, ammoniva: «ridurre l’identità a un singolo senso di appartenenza instilla negli uomini un atteggiamento parziale, settario, intollerante, dominatore, a volte suicida, e li trasforma in assassini, o in sostenitori di assassini.» Questo è esattamente ciò che l’Europa non è, e non deve diventare: intollerante. Semplificare il senso di essere europei con “bianchi e cristiani” apre pericolosamente la via all’eccesso dell’intolleranza verso l’Altro. L’identità europea è, e deve restare, plurale: un’identità indefinibile per definizione, molteplice e cangiante, di un’Europa che trae dalla sua diversità la sua ricchezza, dalla sua unità la sua forza.

Se l’identità europea è plurale, resta aperta la questione su cosa unisca davvero il continente. La domanda è ancora irrisolta: cosa vuol dire essere europei? La risposta viene, senza che questo stupisca, dalla Polonia. Da quella stessa Polonia che ultimamente è al centro dei riflettori per le politiche populiste e anti- europeiste del governo. Dalla stessa Polonia che ci ricorda che governo e cittadini non sono la stessa cosa: nel momento in cui l’esecutivo ha messo a repentaglio l’indipendenza della magistratura, i polacchi sono scesi in piazza per difendere la separazione dei poteri e lo Stato di Diritto. Ecco: essere europei non è essere bianchi o neri o mulatti, avere gli occhi di questo o quel colore, essere cristiani o ebrei o musulmani o

agnostici, non è essere giovani o vecchi, parlare quattro lingue o solo la propria. Essere europei vuol dire avere valori e obiettivi comuni per cui lavorare insieme. Vuol dire lottare per la democrazia, per lo stato di Diritto, per l’equità sociale, per la tolleranza fra popoli. Questi sono i valori trasversali che rendono il cittadino europeo davvero europeo, questa è l’Europa da difendere a tutti i costi: un’Europa unita dai propri valori, nella diversità delle proprie identità plurali. Una sorta di cittadinanza per ius valoris, ben più ampio e più coraggioso di qualsiasi presunto ius culturae.

Certo, questi valori sono già scritti, nero su bianco, nei trattati UE: non basta. Serve una Costituzione Europea, che li salvaguardi e li consacri, che unisca politicamente gli europei in un’unica federazione che possa essere la più alta espressione democratica dell’unità nella diversità. Stando attenti a salvarsi da uno dei paradossi della democrazia: tollerare gli intolleranti. Perché gli intolleranti non sono europei. Sono solo intolleranti.

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