Nel giro di una ventina di giorni il mondo delle università italiane ha ricevuto due schiaffi. Si tratta delle classifiche stilate da QS Top Universities e dall’Academic Ranking of World Universities (ARWU) a cura di ShanghaiRanking della Shanghai Jiao Tong University. I due ranking, rispettivamente delle top 100 e top 150 università al livello mondiale, hanno visto un’esclusione totale degli atenei italiani dalle classifiche.

Certo, gli atenei “d’eccellenza” in Italia non si allontanano di molto dalla classifica. Nel contesto della classifica di QS, un ateneo italiano non è lontanissimo dalla top 100, raggiungendo la 142esima posizione, ovvero il Politecnico di Milano. Nella classifica che arriva da Shanghai si posizionano tra 151esimo e 200esimo sei atenei: lo stesso Politecnico, l’Università di Bologna, Università di Padova, Università di Pisa, La Sapienza di Roma e Università Torino.
D’altronde anche a febbraio i risultati dell’indagine condotta da Italiadecide e Intesa SanPaolo, basati sui parametri di classificazione di Times Higher Educator (THE) e proprio di QS, davano per scontato questo risultato. Con un aspetto positivo: il 40% degli atenei rientrano di diritto tra le mille migliori università del globo. Che l’Italia non fosse tagliata per la corsa all’eccellenza, secondo la classifica di Shanghai, si sapeva dal 2014. Ancora, già nel 2016 la classifica stilata dal THE trovava le università italiane fuori dalle 100 migliori (la Normale di Pisa si posizionava 112esima).

 

Nulla di nuovo, dunque. Tuttavia, questa esclusione ovviamente non fa felice nessuno. E diventa necessario comprenderne i motivi. Maria Cristina Origlia, presidente del Forum della meritocrazia, ne parla al Foglio, e sottolinea la questione dell’altissimo numero di studentesse e studenti. Che, secondo Origlia, impedirebbe «di creare percorsi di eccellenza per gli studenti più talentuosi o che si impegnano di più: abbiamo giustamente sempre difeso il diritto allo studio per tutti ma ciò non deve appiattire le potenzialità dei giovani. Di là da classifiche più o meno opinabili, i dati di fatto hanno un effetto concreto e tangibile sulla competitività del paese e sul contributo del sistema universitario alla transizione verso un’economia della conoscenza».

Tuttavia, è impossibile non affrontare anche un’altra questione fondamentale, il proverbiale “elefante nella stanza”. Come ricorda la presidente del Forum, infatti, «gli indicatori dei ranking hanno a che fare con la qualità e la quantità della ricerca». Sotto questo aspetto la situazione non è delle migliori, come ricordava anche La Nuova Europa. «Dalle analisi del Forum emerge che le nostre università sono più deboli sotto questo aspetto, non nella qualità dell’insegnamento. Spesso lo si deve all’assenza di risorse sufficienti a impostare un lavoro finalizzato a tali risultati».

In effetti, non è difficile osservare le colossali differenze di finanziamento. Se l’Italia è l’unica nazione del G8 a non contare alcun ateneo nelle più alte posizioni questi ranking diventa naturale guardare ai primi posti della classifica per notare la distanza.

I primi quattro atenei della classifica stilata da Shanghai, infatti, sono le arcinote Harvard, Stanford, Cambridge e MIT (Massachusetts Institute of Technology). Combinando il totale delle spese di queste “fab four” si supera la cifra monstre di 15,5 miliardi di dollari (13,2 miliardi di euro circa). Un finanziamento mostruoso, senz’altro sostenuto da ingenti investimenti privati, e che impressiona soprattutto per il confronto con l’Italia. Nel Belpaese, i 65 atenei pubblici ricevono i “soliti” 7 miliardi annuali del Fondo di Finanziamento Ordinario, e complessivamente arrivano a un finanziamento di poco meno di 12 miliardi. Gli iscritti, ovviamente, non sono neanche comparabili: con i suddetti 12 miliardi sono finanziati, come già detto, 65 atenei, per un totale di 1,6 milioni di studenti circa. Gli studenti iscritti alle top 4 mondiali sono circa 67.000, 24 volte in meno. Nonostante i finanziamenti assolutamente non comparabili, tuttavia, l’attività di ricerca delle università pubbliche italiane porta a più del doppio degli articoli scientifici delle top 4.

I numeri che riguardano le classifiche che ci vedono esclusi servono a poco, certo, se non a rendersi conto della sproporzione di finanziamento che porta alla formazione di “top universities”. L’investimento pubblico evidentemente non è sufficiente, ed è oggetto di una richiesta di riforma nota come Piano Amaldi. L’investimento privato in ricerca, in Italia, ci vede ampiamente ultimi nel G8, nonostante la sempre maggiore autonomia degli enti universitari. Forse è il momento di un cambiamento di rotta.GA