Dopo sessant’anni di integrazione politica la cittadinanza europea non è un patrimonio condiviso. La maggioranza dei giovani preferisce rimanere silenziosa e continua a non comprendere
Di Federico Castiglioni
Giovani Federalisti Europei
Se c’è una cosa che un giovane non sopporta è la retorica, soprattutto quando si parla della sua generazione, delle sue presunte aspirazioni e delle sue presunte opinioni. Eppure un esempio di questo tipo di retorica è onnipresente nel dibattito pubblico quando si parla del rapporto tra i giovani e l’Europa. La generazione che è nata e cresciuta poco prima o poco dopo il crollo del muro di Berlino è stata soprannominata “generazione Erasmus”, dal nome del progetto europeo che facilita gli scambi interuniversitari e interscolastici a livello europeo. Pletore di politici, giornalisti e sondaggisti ci hanno parlato di una generazione “ormai europea”, “abituata all’Europa”, nonché “ultimo baluardo dell’europeismo”. Queste argomentazioni sono un paravento per nascondere una realtà molto più complessa. In realtà i sessant’anni dell’Unione Europea sono trascorsi senza che nessun giovane se ne accorgesse, a parte qualche migliaio di studenti universitari, solitamente i più interessati alla politica, che hanno preso la questione più a cuore (tra cui il sottoscritto). Per la maggior parte dei giovani il 25 marzo 2017 è stato un giorno come un altro. Non stiamo parlando dei sindacati studenteschi, mobilitati per la maggior parte a sostegno del progetto europeo, né delle giovanili di partito, presenti alla manifestazione per l’Europa organizzata dai federalisti europei. Allo stesso modo non stiamo parlando del Forum italiano dei giovani, né delle associazioni cattoliche o di categoria, anch’esse, in un modo o nell’altro, partecipi o promotrici delle molte iniziative organizzate dalle istituzioni o della società civile. Stiamo parlando invece del restante 80% dei giovani italiani che si sono limitati a guardare le manifestazioni istituzionali o dei loro coetanei in televisione e a scrollare la testa, non comprendendo. Perché la verità è che la nostra generazione non comprende l’europeismo, come non comprende l’antieuropeismo (come dimostra la scarsissima partecipazione giovanile alle manifestazioni degli euroscettici). Dopo sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, che per primi iniziarono una collaborazione economica tra gli Stati dell’Europa occidentale, e dopo quasi trent’anni di integrazione politica, iniziata con il Trattato di Maastricht, la cittadinanza europea non è un patrimonio condiviso. E se è vero che se devono scegliere i giovani si esprimono per la maggior parte a favore del progetto europeo, come dimostra la Brexit, è vero che la maggioranza dei giovani preferisce rimanere silenziosa e continua a non comprendere. Non è del resto un problema dell’integrazione europea ma è una distanza in aumento, in alcuni casi siderale, che separa la nostra generazione dalla politica e quindi dalle sorti della collettività. Ci sarebbe molto da dire su quel misto di rassegnazione e pessimismo che contraddistingue quella che rischia di essere l’ennesima generazione perduta e dell’appello inascoltato al coinvolgimento della società civile organizzata o delle istituzioni, un appello costante rivolto a giovani cittadini (ma li possiamo definire tali?) che sognano un’indipendenza irraggiungibile, costretti a vivere per tutta la vita nelle loro stanze da adolescenti. Chi pensa che questa generazioni consideri la possibilità di viaggiare senza documenti più importante della propria vita quotidiana e delle proprie aspirazioni sbaglia di grosso. E in effetti il vento, lentamente, sta cambiando. I giovani che votano Le Pen in Francia sono in aumento e quando la candidata del Front National dice, come al Corriere della sera, che lei non vuole distruggere l’Europa ma scuoterla, si rivolge esattamente alla generazione Erasmus il cui cuore doveva essere conquistato dalle istituzioni di Bruxelles. Allo stesso modo quando ci accorgiamo che la maggior parte dei giovani italiani vota Movimento 5 stelle, un movimento che dice di voler cambiare l’Europa e non abolirla, capiamo che quei giovani davanti alla televisioni (in realtà ormai davanti ai loro computer) non sono interessati tanto agli ultimi sessant’anni europei, quanto ai prossimi trenta. Come è possibile quindi invertire il trend ed avvicinare l’Europa ai cittadini? Le strade probabilmente sono solo due. La prima è la solidarietà e la vicinanza tra giovani europei. Ai giovani non deve essere “concesso” più spazio o più occupazione, ma sono i giovani stessi che, tramite le reti europee transnazionali che sono ormai solide, devono farsi promotori di nuovi progetti e di nuove idee. La terra della speranza non deve essere Londra o Berlino, ma l’Europa in quanto tale (Italia compresa). La seconda strada è invece quella della politica e passa per una narrazione diversa del nostro continente. L’idea d’Europa deve entrare nel nostro quotidiano, non solo rivolta ai giovani cosmopoliti cittadini ma anche a chi sceglie di vivere e lavorare nello stesso posto, magari in un piccolo centro, per tutta la vita. Perché il sogno europeo è di tutti e ha le potenzialità per essere, se riusciamo, l’unico vero sogno di questa generazione.