Non è l’euro il referendum che può produrre la fine dell’Unione, come profeticamente previsto dalla serie Sky Il miracolo, ma l’immigrazione e la gestione dei suoi flussi. Il neo ministro degli Interni, Matteo Salvini, l’ha capito benissimo. Lasciando agli economisti le disquisizioni su improbabili piani B di uscita dalla moneta unica, il leader della Lega, centravanti di sfondamento delle geometrie europee del governo di Giuseppe Conte, ha puntato tutto su quello che diverrà il tema saliente delle prossime elezioni nazionali e comunitarie, ribaltando il tavolo sulla riforma di Dublino senza nemmeno sedervisi. Il nodo cruciale per il paese con più coste marittime degli altri, immerso nel Mar Mediterraneo, in cui sono rimaste le frontiere a dispetto della fine di quelle terrestri, è proprio saper leggere bene le statistiche dell’immigrazione, che raccontano un dato innegabile: gli sbarchi sono crollati ma cresce il numero di coloro che restano in Italia. Clandestini, persone in attesa di asilo o di ricollocamento, minori abbandonati, orfani. Sono tutti in aumento. E’ come se un secchio continuasse a riempirsi d’acqua pur avendo chiuso il rubinetto. Più che un miracolo, un incubo, le cui cause vanno assolutamente ricercate.

Basta avere la pazienza di leggere le cifre ufficiali del Viminale e del ministero dell’Economia, molto più interessanti di qualsiasi contratto, per averne conferma. A partire dalla seconda metà del 2017 si è osservata un’inversione di tendenza nel numero di arrivi sulle coste italiane. E’ stato notato da tutti, media e opinione pubblica. Gli sbarchi nel primo semestre del 2017 sono aumentati del 18,7 % rispetto allo stesso periodo del 2016, mentre si sono ridotti del 67,7% nel secondo semestre. I numeri assoluti parlano da soli: nei primi cinque mesi del 2016 ci sono stati 48.600 approdi, che sono diventati 61.083 nell’analogo periodo del 2017, mentre nel 2018 sono diminuiti a 13.775. Tale riduzione è la diretta conseguenza delle misure messe in atto nel Mediterraneo, in ultimo dal ministro Minniti, tra cui l’attivazione di diversi hotspotper l’identificazione dei migranti in collaborazione con i funzionari di EasoFrontex ed Europol, l’emanazione di un codice di condotta per le organizzazioni non governative e l’affiancamento delle navi italiane a quelle della guardia costiera libica. 

L’andamento del primo trimestre di quest’anno 2018, fotografato dal Def,certifica quindi un 70% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nonostante il rallentamento dei flussi, però, ammetteva lo stesso governo Gentiloni nel Documento di economia e finanza, poco prima di passare la mano all’esecutivolegastellato, le presenze nelle strutture ‘’hanno visto un andamento crescente, dalle 176 mila unità attestate a fine 2016 alle oltre 183 mila a fine 2017, con picchi fino a oltre 193 mila a settembre 2017’’. La maggior parte dei rifugiati è ospitata in strutture provvisorie, poiché i servizi convenzionali a livello centrale e locale hanno capienza limitata. Sono state emanate specifiche disposizioni normative per affiancare l’intervento ‘’emergenziale’’, ammetteva il governo di centrosinistra,con procedure più snelle e rafforzare il sistema di seconda accoglienza volto all’integrazione, ma la situaizone, complice la chiusura di fatto delle frontiere degli altri paesi europei, non sembra migliorata. La situazione è infatti esplosiva, soprattutto per i più deboli. La presenza di una quota significativa di minori non accompagnati (circa 25 mila nel 2016 e oltre 15 mila nel 2017) fa il paio con il numero di richiedenti asilo in crescita (123 mila persone nel 2016 e circa 130 mila nel 2017). Nel confronto con gli altri paesi europei, l’Italia risulta così il secondo paese dopo la Germania per le prime richieste di asilo e per le richieste in sospeso. E tutto questo ha un peso crescente sulle casse pubbliche, oberate di quasi 2.300 miliardi di debito pubblico. 

Si scopre così che, in base ai dati ‘’consuntivati’’, la spesa per le operazioni di soccorso, assistenza sanitaria, accoglienza e istruzione è stimata, al netto dei contributi dell’Ue, pari a 4,3 miliardi nel 2017 (è lo 0,25% del Pil) ed è destinata a salire. Considerando una ‘’capacità perdurante di frenare gli arrivi’’, sempre secondo il passato esecutivo, ‘’la previsione di spesa da sostenere nel 2018 è compresa tra 4,6 e 5 miliardi che, anche al netto dei contributi dell’Unione Europea, determina un incremento tra lo 0,02 e lo 0,04 % del Pil rispetto alla spesa del 2017’’. Il problema è l’esiguità dei finanziamenti comunitari sul totale, che suona decisamente scandalosa se si pensa ai tanti rimbrotti che giungono spesso dalla Commissione: rispettivamente 77 e 80 milioni di euro su 4,363 e 5,047 miliardi complessivi per il 2017 e 2018. Una goccia nel mare, che diventerà la miccia di ogni confronto futuro tra il Viminale e tutte le altre diplomazie europee. Soprattutto in prossimità del vertice di fine giugno e in vista delle elezioni europee di maggio 2019.

Lo scenario di crescita 2018 prende peraltro in considerazione il calo dei flussi di approdo e considera, rispetto allo scenario costante, una presa in carico di circa 500 minori non accompagnati aggiuntivi (un numero enorme di un esercito fantasma) a un costo medio di 45 euro al giorno, di circa 31 mila persone aggiuntive nelle strutture di accoglienza governativa e temporanee a un costo medio di 32,5 euro al giorno e di circa 1.750 richiedenti asilo e rifugiati aggiuntivi nel sistema di protezione a un costo medio di 35 euro al giorno. Sempre cifre del governo.

Certo, non ci sono solo spine nel vaso dell’integrazione. Va messo sul piatto della bilancia anche l’apporto che gli stranieri forniscono all’economia. Si tratta però della prima ondata di immigrazione, per lo più in arrivo dai paesi dell’est Europea e dall’Egitto. Secondo i dati del ministero dell’Economia, riportati da chi scrive in Euxiti contributi Inps versati dai lavoratori stranieri nelle casse dell’Istituto di previdenza sono pari a circa 8 miliardi di euro. L’Inps, sempre secondo gli ultimi dati disponibili del Tesoro, ha un attivo da questi contributi di 4,5 miliardi di euro a fronte delle pensioni erogate sempre in favore dei lavoratori non italiani. Importante anche la parte fiscale. L’imponibile totale generato dai redditi dei lavoratori stranieri in Italia è di 45,6 miliardi di euro (dati del Tesoro del 2015) che ha generato 6,6 miliardi di euro di Irpef pagata. Importante anche il contributo nel mercato del lavoro e nella comunità scolastica. L’incidenza percentuale sul totale degli occupati dei lavoratori esteri, comunitari e non, è passata dal 6,3% del 2007 al 10,5% del 2016, ma con rilevanti differenze settoriali. Si tratta di un lavoratore su dieci, una percentuale importante, ma non si tratta di un tasso di sostituzione: immigrati contro abitanti. Questa incidenza aumenta infatti se si prendono in considerazione l’Agricoltura, dove la forza lavoro straniera pesa per il 16,6% del totale, il Commercio, dove si è passati dal 3,7% rilevato nel 2007 al 7,2% del totale degli occupati nel 2016, e i Servizi, in cui la presenza estera è salita dal 5,9% al 10,7%. Sono numeri che danno un volto a tutti coloro che ogni giorno sono impegnati nelle fabbriche del Nord Est e nei cantieri aperti, nei negozi, lungo i campi coltivati del Sud. Si accontentano di posti che gli italiani ritengono, a torto o a ragione desueti, visto che lasciano il paese persone che molto probabilmente non lavorerebbero in campagna, in un drugstore o come muratore, avendo conseguito lauree in fisica, biologia, ingegneria, lettere. Ma non sono i disperati che arrivano sui barconi da tre anni a questa parte.

Anche la scuola è piena di apolidi in attesa di cittadinanza, che riempiono da anni le aule che senza di loro sarebbero mezze vuote, a causa dell’endemica natalità a tasso zero. L’ultimo Rapporto del Ministero dell’Istruzione sull’integrazione, ha certificato come quasi uno studente su dieci in Italia sia straniero. Dal 1995 al 2016 questi stranieri che parlano in romanesco o nella lingua del Boccaccio, sono passati da 50.322 a 815.000, una vera esplosione demografica. In tutto, il 9,2% del totale. Nel 1983 erano solo 6.000. Costano allo Stato, ma sono i suoi cittadini del futuro.

Quando si parla quindi del contributo degli immigrati alla società italiana e di quanto costino alle casse pubbliche, e della necessaria revisione degli accordi europei di Dublino che impongono al salvatore di essere anche l’unico accedente, si deve fare i conti con il blocco dei ricollocamenti, completamente falliti per la contrapposizione del blocco di Visegradcon la chiusura della Francia e l’ostilità di Austria e Germania. Allo stesso tempo, non si deve quindi fare confusione tra prima ondata e seconda ondata di migrazioni. La prima ha comportato benefici, la seconda per ora è solo un costo. Italiano, ma dovrebbe essere comunitario. L’Unione Europea rappresenta il 7% della popolazione mondiale, produce il 25% del Pil globale e offre il 50% del welfare planetario. L’Europa è miglior posto dove vivere e l’Italia il suo hub: può attrezzarsi per fronteggiare l’emergenza, ma Bruxelles non può pensare che l’Italia diventi una gigantesca Calais continentale. Matteo Salvini l’ha capito perfettamente, chi difende i giusti principi della solidarietà ha l’obbligo di leggere bene tutti i documenti prima di preparare le controdeduzioni.

Il referendum europeo sui migranti è iniziato e per ora il suo esito appare scontato.