Gli Stati Uniti si trovano in una situazione piuttosto singolare. Hanno tre presidenti. Oltre a Donald Trump, democraticamente eletto, che fa brindare Wall Street, insospettire gli stessi servizi segreti e ingrossare il conto degli psicanalisti presso cui si affollano schiere di intellettuali progressisti per elaborare il lutto, l’inquilino della Casa Bianca, ora a Taormina per il G7, deve confrontarsi con il suo predecessore Barack Obama, che non perde giorno per far conoscere come la pensa, come ad esempio nella sua visita a Berlino, e con Mark Zuckerberg, il capo dell’area geografica più grande e popolosa del mondo, a dispetto di quanto pensino in Cina.

 Se Trump cerca di correggere il tiro dei suoi tweet incendiari nelle posizioni e negli speech ufficiali, e ha il suo bel da fare per smarcarsi dal Russiagate, e sembra intenzionato a mantenere quello che ha promesso (più spesa, più inflazione, più lavoro per i bianchi, meno regole per la finanza), il grande Obama si permette di intervenire molto spesso, con toni anche critici, non contento di vivere una vita decisamente agiata. È capitato a Milano per la conferenza sul cibo, si è ripetuto nella capitale tedesca dove ha espresso preoccupazione per il destino della sua riforma sanitaria. Eppure, a guardare indietro nella gloriosa storia degli States, mai nessun past president è stato così presente nello Studio Ovale, pur avendo fatto gli scatoloni. Non è accaduto con Truman e Eisenhower, né con Johnson e Nixon. Neppure Bill Clinton, dopo i fasti economici della sua era, si è permesso di criticare la gestione difficoltosa e a tratti drammatica di George W. Bush. Probabilmente l’attacco alle Torri Gemelle e la guerra in Iraq ha cementato in quella fase lo spirito americano, più di quello che può fare oggi la lotta agli effetti della globalizzazione e all’Isis.

In questo frangente, in cui alla distruzione di lavoro si cerca di dare risposte politiche, desta perciò stupore che nessuno abbia riflettuto un po’ più a lungo sul ”Manifesto” che il padrone di Facebook ha pubblicato di recente. Molti osservatori hanno parlato di una mossa del giovane milionario propedeutica al suo futuro ingresso in politica, dimenticando che già questa è politica e che il futuro sul web è oggi. Se però Trump parla in quanto eletto, Obama interviene perché si ritiene di fatto leader ombra della Nazione e del mondo, Zuckerberg, non ha bisogno di andare a Taormina, perché da solo, insieme a Google, Apple e Amazon conta di più dei sette grandi della terra. E così  scende in campo solo per il gusto di dire la sua o forse perché il grande fratello social è già qualcosa di più, un ircocervo metà azienda e metà Stato.

 Il numero uno di Facebook già da un po’ di tempo parla della possibilità di governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la rete, stigmatizza i veti trumpiani e britannici alla libera circolazione degli immigrati e la costruzione di qualsiasi muro (effettivamente Facebook questi ostacoli li ha spazzati via) e afferma: “per sconfiggere il terrorismo e progredire, l’umanità deve unirsi, non pensare in termini di città e nazioni, ma come se fosse una comunità globale. La mia speranza è quella di costruire nel lungo termine una infrastruttura sociale per unire l’umanità, una comunità informata, sicura, impegnata dal punto di vista civico, inclusiva. Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un ruolo”. Affermazioni che non si ritroveranno mai in un comunicato finale del G7 ma che possono tramutarsi facilmente in realtà: non servono accordi con nessuno. Zuckerberg dice di non pensare in termini di città e nazioni e dimostra di essere qui ben oltre la società liquida di Bauman e le diatribe sull’accordo sul clima che Trump vorrebbe disdettare. Questa cosa mette un po’ i brividi, visto che fino a prova contraria i governi, capaci o meno che siano, vengono eletti con l’espressione del voto popolare. Di che ”ruolo” parla il magnate social? Forse il suo Stato è stato già riconosciuto dalle Nazioni Unite, come invece ha fatto il presidente cinese Xi Jinping, andando a trovare i big della Silicon Valley prima ancora di arrivare a Washington nella sua ultima visita di stato? Ecco, appunto, lo Stato. Lo Stato si poggia su legge, confini, moneta e tassazione. Facebook ha le sue norme (se le costruisce da sola), non ha limiti, può adottare  una valuta (Bitcoin) pur non coniandola, paga le imposte dove vuole, una sua azione vale più del doppio un barile di greggio, fa utili per 2 miliardi su 6 di fatturato, il tutto nell’indifferenza totale del miliardo e 600 milioni di amministrati digitali che presto arriveranno a due. Il prossimo passo sarà magari indire un referendum su Internet e a quel punto le polemiche che infuriano su Trump e la sua visione semplicistica del mondo faranno sorridere. Mentre si blinda un intero paese per celebrare lo stanco rito del summit dei sette, una riflessione su chi comanda davvero oggi il nostro mondo e da cosa trae questa investitura andrebbe fatta.
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