La presenza sempre più massiccia di imprenditori immigrati è un volano per la crescita del nostro Paese. È quanto emerge dal Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2017, curato dal Centro Studi Idos insieme alla Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa – che associa più di 11mila imprenditori nati all’estero e, tramite il Patronato Epasa-Itaco, assiste ogni anno un numero ancor più cospicuo di cittadini immigrati – e a MoneyGram, che dal 2009 si distingue per una specifica attenzione agli imprenditori di origine straniera.

Sono oltre 571.000 le imprese gestite da lavoratori immigrati all’inizio del 2017, quasi un decimo di tutte le attività registrate dalle Camere di Commercio (9,4%): un dato in continuo aumento, anche negli anni della crisi economica (+25,8% dal 2011). Si tratta prevalentemente di ditte individuali (79,3%), ma cresce la quota delle società di capitale (12,2%) mentre, tra le start-up innovative, sono il 12,8%, alla stessa data, quelle in cui è presente almeno un immigrato. Gli immigrati sono, inoltre, sempre più presenti nei segmenti ordinari dell’attività produttiva e alla consolidata presenza nel commercio (36,2%) e nell’edilizia (22,9%) si affianca il crescente inserimento nell’erogazione di servizi. Le attività di alloggio e ristorazione (7,7%) e i servizi alle imprese (5,5%) continuano a mostrare gli incrementi relativi più elevati (+46,0% e +77,5% dal 2011), mentre segna il passo la manifattura (7,8%). Parimenti rilevante si mantiene la partecipazione alle attività artigiane (183mila imprese, il 13,6% di quelle attive nel settore). Più marcata, rispetto all’intera base imprenditoriale, è la concentrazione delle aziende a guida immigrata nel Centro-Nord (77,4% vs il 65,8% di quelle gestite da italiani di nascita): Lombardia (19,3%) e Lazio (13,0%), e al loro interno Roma (11,4%) e Milano (9,1%), si confermano le principali regioni e province in tale ambito. Sono, però, le grandi aree metropolitane (in modo marcato quelle del Mezzogiorno) a segnare ritmi di aumento particolarmente elevati: infatti, le 14 Città Metropolitane italiane raccolgono il 41,7% di tutte le imprese immigrate. Tra i gruppi nazionali, continuano a distinguersi per un’accentuata partecipazione all’attività d’impresa soprattutto marocchini (14,5% degli immigrati responsabili di ditte individuali), cinesi (11,4%) e romeni (10,6%), ma sono i bangladesi a far segnare gli incrementi maggiori (+332,0% dal 2008).

In un contesto come quello italiano, dove la forte spinta all’imprenditorialità degli stranieri si concretizza per lo più in attività a basso valore aggiunto e con ridotti margini di crescita, avviate o rilevate da lavoratori già insediati nel Paese, la sfida di proiettare la crescita verso un progressivo consolidamento e verso ambiti innovativi non è un processo semplice, né dagli esiti scontati. Si tratta, infatti, di elaborare strumenti di intervento capaci di associare alla crescita quantitativa, che continua a caratterizzare l’imprenditorialità immigrata, un adeguato sviluppo anche in termini di qualità; uno sviluppo in grado di rimuovere quegli elementi di svantaggio che, legati alla maggiore vulnerabilità socio-economica della popolazione di origine immigrata e alle problematiche connesse allo status di cittadino straniero, finiscono per frenare, in concorso con fattori strutturali, la crescita e lo sviluppo delle attività indipendenti degli immigrati.

Già il “Programma di Stoccolma” (2010) aveva invitato gli Stati membri a facilitare l’ingresso di imprenditori stranieri nei circuiti economici nazionali, mentre, con l’Agenda Europea per l’Integrazione dei cittadini di Paesi Terzi (2011), si era sottolineata l’esigenza di rafforzare l’importante ruolo imprenditoriale della componente immigrata, la cui creatività avrebbe dovuto e potuto costituire motivo di generale innovazione. Ma è solo con il Piano d’Azione Imprenditorialità 2020 che l’imprenditoria immigrata è entrata a pieno titolo nelle politiche dell’Unione Europea, sia in termini di attrazione di nuovi imprenditori dall’estero sia di promozione dell’attività indipendente dei migranti già insediati sul territorio. Esso individua la necessità di offrire strumenti di supporto su misura, che conducano, contemporaneamente, all’empowerment delle capacità imprenditoriali attraverso il rafforzamento del capitale umano degli immigrati (con l’accrescimento della loro abilità di fare business all’interno del contesto di insediamento) e all’eliminazione degli ostacoli strutturali: un obiettivo, questo, perseguibile soltanto migliorando le condizioni del mercato, attuando regolamenti favorevoli all’iniziativa privata, rafforzando le organizzazioni di intermediazione e rappresentanza e, non ultimo, favorendo l’accesso al credito, in un clima di effettiva pari opportunità.

Lo scenario tracciato induce, pur nella constatazione delle peculiarità nazionali, ad un’unica, significativa conseguenza:  è necessario ridefinire l’approccio alla dialettica immigrazione-lavoro in una prospettiva irreversibilmente europea, armonizzando le procedure di ingresso nel tessuto produttivo, nonché le politiche di incentivo all’interno dell’Unione, e promuovendo questa nuova imprenditorialità, chiamata ad una duplice sfida, che coinvolge economia e società in un corale sforzo civile. Due, dunque, gli obiettivi, audaci e decisivi: da un lato, valorizzare il surplus arrecato dal migrante che, spesso letto in un’ottica passiva, quale fruitore di una logica assistenziale di matrice pubblica, si segnala come elemento dinamico; dall’altro, credere e operare in vista di una riforma dello stato sociale in un’ottica transnazionale.

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