di Giulio Saputo e Jacopo Barbati

Qualche anno fa, il consenso crescente dei partiti sovranisti e la Brexit avevano scatenato una ripresa nella diffusione dell’entusiasmo europeista: gli avversari erano chiari per tutti, poiché in discussione era stato messo tutto il processo di integrazione. Non c’era bisogno di distinguere tra chi era per un’Europa così com’è, per un’integrazione funzionalista o federalista, perché dall’altra parte della barricata c’era chi voleva distruggere tutto. Questo punto mai chiarito creerà alcune contraddizioni che ancora oggi rendono difficile riconoscere le posizioni politiche, dopo la vittoria di Macron e la riconferma di Merkel nel 2017 e il trionfo delle forze pro-UE alle elezioni europee del 2019.

Le forze europeiste e federaliste hanno infatti lasciato il presidio delle piazze e della società civile e, parallelamente, hanno scelto di svolgere un ruolo di sostegno ai vincitori di quelle ultime elezioni rendendo ulteriormente complicato distinguere gli uni dagli altri.

La prima conseguenza di questa alleanza con le classi dirigenti pro-UE è che c’è stata una sostanziale appropriazione da parte delle forze di governo delle parole d’ordine di Spinelli, ma con un completo svuotamento del loro significato rivoluzionario. Ventotene diventa o un’astratta utopia da citare all’occorrenza o il sinonimo dello status quo comunitario da difendere in un cortocircuito logico che non lascia spazio alle sfumature di un approccio “eurocritico” al processo di integrazione.

L’altra conseguenza è stata che si è rapidamente passati dal sostegno ai leader europeisti vincitori delle elezioni alla semplificazione del messaggio politico fino all’appiattimento sulle loro posizioni. Questo processo è evidente se prendiamo l’evoluzione del termine “sovranismo europeo” post discorso alla Sorbona di Macron e il rilancio che ne ha messo in campo la Commissione. Eppure, è evidente a tutti che non può bastare un’Europa sovrana, ma occorre avere un’Unione che rispetti lo stato di diritto e la democrazia dentro e fuori i propri confini. Non si possono ignorare nel dibattito pubblico gli scandali in Libia, in Polonia, in Ungheria, nel Mediterraneo, a Lipa, ecc. Non si può fissare lo sguardo su un unico aspetto del federalismo perdendo quello d’insieme o si finisce per diventare miopi. Ecco cosa distingue, in realtà, il sogno di Spinelli, Rossi e Colorni dall’Europa-fortezza di Forza Nuova o dall’Europa-nazione cui alcuni esponenti della Lega recentemente si sono richiamati.

Arriviamo ad oggi.

La Brexit e la pandemia da Covid-19 hanno funzionato da grandi acceleratori e potrebbero risolvere, con il dotarsi da parte dell’Unione di un proprio bilancio e di risorse proprie (con una capacità fiscale autonoma), il cuore della battaglia combattuta dei federalisti degli ultimi anni. Vedremo come andrà a finire, ma sembra che si stia percorrendo la giusta via col Next Generation EU.

In Italia si è passati dal primo governo euroscettico della storia repubblicana, ad uno profondamente europeista (con le stesse forze parlamentari). Stiamo assistendo alla retorica della maggioranza “tutti insieme con tutti quanti” che prendono come riferimento le stesse parole d’ordine, ormai “sdoganate”. In questo scenario il Manifesto di Ventotene (cioè il federalismo) non è solo svuotato completamente di significato, ma diventa un sinonimo di normalizzazione e di legittimazione anche di chi detiene posizioni politiche aberranti.

La cosa paradossale è che questa situazione porta i federalisti ad avere oggi delle armi spuntate in un contesto che mai è stato così favorevole. Perché se tutti si autodefiniscono europeisti (e persino federalisti) e se gli stessi federalisti ormai hanno accettato che anche quello di Macron o di Draghi è federalismo interpretando i loro messaggi “istituzionali” come rivoluzionari, improvvisamente il rischio è di ritrovarsi senza aver niente da rilanciare sul piatto delle proposte di avanguardia ma di ritrovarsi solo in una posizione di banale sostegno (una sorta di “effetto cheerleader”) con una seria difficoltà a muoversi “tra i partiti” e nel dialogo con gli eventuali oppositori.

In più, se anche la Lega usa le parole d’ordine di Ventotene, e noi federalisti abbiamo rinunciato da tempo a trovare la differenza fra “Europa fortezza” e “Federazione europea”, non abbiamo più niente da aggiungere sul piatto del dibattito pubblico.

Ora che le stesse istituzioni propongono delle soluzioni avanzate, occorre battersi per contrastare la strumentalizzazione delle parole d’ordine federaliste e rilanciare degli obiettivi ancora più radicali.

La proposta non ancora realizzata di bilancio federale è insufficiente quando in gioco ci sono la tenuta dello stato di diritto, la democrazia e i diritti umani. Se da un lato occorre preservare le conquiste della civiltà europea, dall’altro occorre superare questa Europa imperfetta, ancora dominata dai veti incrociati dei governi. Dobbiamo stare attenti a non ridurre il nostro ruolo a quello di sostegno o di mera cassa di risonanza di singole personalità o delle istituzioni comunitarie perché, come federalisti, con un obiettivo in sé rivoluzionario (in quanto implica un deciso cambio di quadro istituzionale), il nostro posto resta e resterà all’opposizione, a prescindere dagli alleati occasionali. Il discorso è ancora più valido in una fase in cui la parola dovrebbe tornare ai cittadini dentro o fuori la Conferenza sul futuro dell’Europa. Dobbiamo lavorare per costruire il consenso per una battaglia costituente e sistemica tra i partiti, nella società civile e coi cittadini per spingere al rialzo i risultati della Conferenza o, comunque, per portare un dibattito d’avanguardia su questo tema anche oltre il tempo ristretto che è stato previsto dall’accordo Pe-Commissione-Consiglio. La Conferenza forse non si rivelerà la grande occasione costituente, ma permetterà comunque di coinvolgere i cittadini sul terreno del cambiamento istituzionale per realizzare un’Unione all’altezza delle loro aspettative e queste istanze non potranno essere ignorate ancora a lungo dai governi.


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