Pubblichiamo qui il testo integrale della lectio magistralis “Informazione, formazione e libertà di stampa” tenuta il 27 febbraio presso il centro Esperienza Europa – Davide Sassoli del Parlamento europeo da Roberto Sommella, direttore di Milano Finanza, membro del Comitato AI del Dipartimento Editoria nonché presidente dell’Associazione “La Nuova Europa”.

Ho deciso di fare il giornalista dopo aver visto al cinema Tutti gli uomini del presidente, un film leggendario sullo scandalo Watergate che portò alle dimissioni del presidente americano Richard Nixon. Fino ad allora ero indeciso tra intraprendere la stessa professione di Carl Bernstein e Bob Woodward oppure seguire le orme di Frank Serpico, anch’egli figura mitica di poliziotto senza macchia degli anni settanta, celebrata in un’altrettanta straordinaria pellicola. Ma vedere Dustin Hoffman prendere appunti anche sui rotoli di carta igienica fumando all’impazzata nella casa di una fonte che rappresentava un tassello del complesso puzzle di accusa nei confronti dell’inquilino repubblicano della Casa Bianca mi fulminò definitivamente. Avrei fatto anche io come Dustin, avrei portato sempre con me una penna e un taccuino e cercato un telefono a gettoni per dettare il pezzo al giornale. Sembrava facile, non lo era affatto.

Dopo qualche anno lessi l’incipit del primo articolo del Washington Post, il giornale dove lavoravano Woodward e Bernstein, uno esperto l’altro appena arrivato in redazione, e imparai subito le cinque regole del bravo giornalista: spiegare subito i fatti, quando, dove e perché essi sono avvenuti, con quali protagonisti.

Il pentagono dell’informazione era contenuto nelle prime righe dell’articolo pubblicato il 18 giugno 1972 dai due reporter del Post: Cinque uomini, uno dei quali ha dichiarato di essere un ex dipendente della Cia, sono stati arrestati alle 2.30 del mattino durante quello che le autorità hanno definito un elaborato complotto per installare microspie negli uffici del Comitato nazionale dei Democratici, a Washington.

Queste righe rispettavano le suddette regole deontologiche per raccontare ai lettori un fatto e anticipavano in modo incredibile quello che sarebbe stato uno dei più grandi scandali della storia americana, portato avanti in solitudine per mesi e mesi dal Washington Post senza che nessuno degli altri grandi giornali gli venisse appresso e avendo contro l’uomo più potente della terra, il presidente degli Stati Uniti, che alla fine, messo alle strette, capitolò.

Senza l’esercizio della libertà di stampa, cardine di ogni democrazia, quell’inchiesta probabilmente non sarebbe arrivata in fondo e l’editore del giornale magari sarebbe stato costretto a chinare il capo di fronte al potere. E Nixon sarebbe rimasto al suo posto.

Recentemente ho regalato ai giovani giornalisti della mia redazione di Milano Finanza una copia di quell’inchiesta i cui autori ricevettero il Premio Pulitzer, nella speranza che gli scattasse quel sacro fuoco che ogni giornalista deve avere nell’affrontare questo mestiere, in auge nonostante tutto, e che in fondo rappresenta un servizio pubblico come quello del poliziotto. Anzi, per la verità, l’ho fatto per dimostrare loro che anche dietro una piccola notizia di cronaca, come all’inizio fu quell’effrazione al Watergate, si può nascondere una grande notizia che può cambiare la storia, quella di chi la scrive e quella di coloro che la leggono.

Di certo, chi scrive notizie deve avere anche qualcuno disposto a leggerle, senza che il redattore mostri il suo pensiero, separando i fatti dalle opinioni, come mi disse il mio primo direttore all’agenzia Ansa, Sergio Lepri: non voglio sapere per chi voti ma soprattutto non voglio scoprirlo dagli articoli che scrivi.

È un insegnamento che vale ancora oggi, forse vale ancora di più coi tempi che corrono.

Ma, come dicevo, questo mestiere non può andare avanti solo con la passione e il sacro fuoco. Prima ancora di sostenere la lettura occorre incentivarla. Non sono più gli anni settanta – e nemmeno si fanno più film come Tutti gli uomini del presidente, Serpico e il Padrino – e i giornalisti non hanno più bisogno di trovare carta per scrivere. Piuttosto hanno bisogno di una guida, di chi gli permetta di lavorare senza condizionamenti e di editori indipendenti, come spesso mi ripete un altro maestro, Paolo Panerai.

Purtroppo, sono però sempre di più coloro che vogliono scrivere e sempre meno coloro che vogliono leggere. Domanda e offerta di informazione non si incrociano più come un tempo e lo fanno con modalità diversa, perché le persone desiderano comunque essere informate, anche se non spengono mai il telefonino.

Da tempo quasi un quarto della popolazione americana non legge libri. Un terzo della popolazione adulta tedesca legge un libro meno di una volta al mese. I più recenti sondaggi dell’Ocse mostrano un forte declino della lettura per il tempo libero, con circa un terzo degli studenti che dichiarano di non leggere o leggere molto raramente. Generalmente, il 49% degli studenti intervistati ha detto che legge solo se di fatto obbligato a farlo, 13 punti percentuali in più rispetto al 2000.

La disaffezione alla lettura non è solo un fenomeno editoriale né rappresenta il conto da pagare all’avvento della tecnologia digitale. È un cambiamento mentale, scaturito, come ha anticipato con il suo bellissimo libro Susan Greenfield, dall’utilizzo smodato dei social e della lettura monodimensionale che ne consegue.

La lettura distratta genera una ancor più ampia distrazione nei rapporti sociali e nel controllo che ogni società, ogni individuo che la compone, devono avere su chi li amministra, sulle aziende che ne decidono i gusti e i consumi, sulle autocrazie che vogliono imporre con la forza e le guerre il loro punto di vista. Senza una lettura attenta dei fatti non esiste una democrazia sana, compiuta. In fondo, non si scrive correttamente la cronaca e si dimentica la storia.

Questa distrazione di massa ci porta a non essere nemmeno in grado di valutare quando una legge sia fatta per il bene comune o per il desiderio di pochi, perché non abbiamo il tempo di approfondire cosa nascondono e come sono composte leggi e regolamenti, così come fatichiamo a discernere tra vero, virtuale e verosimile da quando nel giugno del 2020 le fake news in rete hanno superato le notizie vere.

Non basta approfondire, come pur si deve fare, il rapporto tra giornalismo e meccanismi di divulgazione digitale, occorre ripartire dalle basi della scrittura, come insegna l’esperienza del New York Times, unico grande giornale ad essersi opposto ad accordi con Open Ai improntando una causa a ChatGpt affinché venga stabilito da un giudice quali sono i confini dell’Intelligenza Artificiale e quali quelli dell’editore.

Per questo è sicuramente da segnalare e fa ben sperare una ricerca denominata Il Manifesto di Lubiana, condotta da alcuni studiosi universitari interessati a spiegare ‘’perché la lettura di un più alto livello è importante’’.  Nella ricerca si legge un’analisi della situazione piuttosto lucida che voglio qui in parte condividere con voi perché la considero essenziale per capire il momento che stiamo vivendo.

Le società stanno affrontando trasformazioni fondamentali, poiché le tecnologie digitali stanno cambiando il modo in cui viviamo, interagiamo, lavoriamo, studiamo e leggiamo. L’impatto sociale e culturale del processo di digitalizzazione sulle capacità di lettura resta poco studiato. Mentre le tecnologie digitali offrono molto potenziale per nuove forme di lettura, recenti ricerche empiriche dimostrano che l’ambiente digitale sta avendo un impatto negativo sulla lettura, in particolare sulla forma lunga e sulla comprensione della lettura.  Resta anche poco chiaro se la transizione verso i media digitali è in grado di mantenere le promesse di migliorare i risultati dell’apprendimento. Altri studi indicano un declino delle competenze e pratiche di lettura cruciali di livello superiore, come la lettura cosciente, la lettura lenta, la lettura non strategica e la lunga forma di lettura.   La politica, nel frattempo, si basa fortemente sul collaudo standardizzato monoculturale delle capacità di lettura di base su un uso sempre più diffuso delle tecnologie digitali. La lettura, l’istruzione, la valutazione, la ricerca e la definizione di politiche dovrebbero invece concentrarsi maggiormente sulle pratiche di lettura di livello superiore sia negli adulti che nei bambini, al fine di comprendere lo sviluppo delle capacità e delle pratiche di lettura in un’epoca sempre più dipendente da una digitale onnipresente infrastruttura.

 Non se questo manifesto in futuro sarà studiato e divulgato per il mondo da chi vuole far prevalere ancora la ragione sull’accondiscendenza acritica, ma so che ci dice già oggi cosa ci serve: leggere per elaborare, scrivere per esprimersi, conoscere per deliberare. Informare per incentivare la formazione del pensiero critico, informare per preservare la libertà di stampa, informare per proteggere la democrazia.

Occorrono però già oggi azioni su tre fronti.

Il primo è quello di dotare l’Italia di una legge sull’editoria che garantisca il pluralismo dell’informazione, che definisce di per sé il tasso di democrazia di un Paese, reperendo le risorse che servono all’esercizio di tale diritto sancito dalla Costituzione e tutelando coloro che operano nel settore e sopportano i costi e le difficoltà crescenti del momento.

In secondo luogo, dal punto di vista del mercato, grazie alle leggi antitrust vigenti, va assicurato che la forza monopolista delle grandi piattaforme digitali non si riverberi anche nell’utilizzo e nella applicazione dei sistemi di Intelligenza Artificiale nel comparto editoriale come in tanti altri settori, dal credito alla politica.

In terzo luogo, l’Italia, come si sta apprestando a fare il Parlamento convertendo il disegno di legge del governo, deve dotarsi di una avanzata legge sulla AI, che tuteli sia l’occupazione nei settori in cui essa verrà applicata che la formazione di nuove professioni umane, garantendo, per quanto riguarda l’editoria, il rispetto del diritto d’autore e l’individuazione da parte del lettore della matrice d’origine dello scritto e dell’immagine che ha di fronte.

 

“Non c’è democrazia senza pluralismo e imparzialità dell’informazione”. Sono parole del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, con cui voleva sottolineare in un messaggio al Parlamento il valore imprescindibile di un’informazione libera e indipendente come pilastro della democrazia. Ancora oggi questo obiettivo deve essere la stella polare della nostra attività, come di ogni soggetto politico e istituzionale, e in fondo lo era anche per quei due giovani giornalisti del Washington Post.

 

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