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Il progetto di una difesa comune europea ha radici lontane. Dal tentativo fallimentare della CED, bloccata dal veto francese posto in nome del desiderio d’indipendenza verso gli USA e di sovranità nazionale, all’urgenza attuale di riconsiderare un’integrazione strategico-militare per preservare gli interessi e la stabilità del continente. Una parabola che anima il dibattito di studiosi, tecnici e leader politici ma che fa anche scendere in piazza cittadine e cittadini.

Per decenni la NATO è stata ritenuta capace di garantire la difesa collettiva degli Stati membri, rendendo l’idea di un esercito europeo pressoché superflua e ancor prima contraddittoria con i valori fondanti di quell’Unione che nel 2012 fu insignita del Nobel per la Pace. Il mutamento degli equilibri geopolitici, reso ancora più palese con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e le trattative per il cessate il fuoco in Ucraina da lui condotte in bilaterale con Vladimir Putin, costringe l’Europa a una riflessione profonda sulla necessità di sviluppare una risposta strutturata e capacità difensive autonome. Il cambio di scenario e i conseguenti cambiamenti dei rapporti tra Europa e Stati Uniti è ben argomentato da Sylvie Goulard, professor of Practice di Global Affairs presso la SDA Bocconi School of Management: “Oggi sembra quasi che quell’alleanza storica non sia più possibile. Lo abbiamo visto con l’umiliazione del presidente Zelensky nello Studio Ovale, ma anche con il voto alle Nazioni Unite di qualche giorno dopo in cui gli Stati Uniti che si sono schierati con la Russia e la Corea del Nord – contro la Francia e il Regno Unito – in una risoluzione che condannava l’invasione dell’Ucraina. Questo è un elemento di novità assoluta e che conferisce una certa gravità alla situazione”.

Un nuovo volto americano. O meglio, una riedizione dell’espansionismo economico testimoniato anche dalle recenti dichiarazioni su Canada, Groenlandia e soprattutto Panama. In questo scenario, il piano ReArm Europe appare una questione da definire e dirimere in tempi piuttosto brevi. Annunciato da Ursula von der Leyen e approvato dal Consiglio europeo in prima battuta tra il 4 e il 6 marzo, prevede un incremento degli investi menti nella produzione di armamenti, un maggiore coordinamento tra i Paesi membri e un rafforzamento delle capacità operative delle forze armate dei 27. Gli obiettivi principali sono garantire la disponibilità di equipaggiamenti e creare una catena di approvvigionamento sicura ed efficiente. Emblematico, a tal proposito, è stato il discorso di Volodymyr Zelensky alla Conferenza di Monaco: “Alcuni in Europa potrebbero essere frustrati da Bruxelles. Ma chiariamolo: se non Bruxelles, allora Mosca. È la vostra scelta. Questa è la geopolitica. Questa è la storia. Mosca farà a pezzi l’Europa se noi, come europei, non ci fidiamo l’uno dell’altro”.

Sylvie Goulard definisce questo discorso “coraggioso e cruciale” e afferma: “Di fronte alla minaccia dobbiamo accelerare i tempi e dotarci degli strumenti necessari per farlo. Non possiamo permetterci di restare indietro. Essendo uno Stato unitario, Washington ha una maggiore facilità nel prendere decisioni e attuarle. L’Unione Europea invece, non essendo una federazione, risulta più frammentata nelle sue scelte con processi decisionali che variano da Paese a Paese. La nostra reazione è troppo lenta e ci penalizza.

Nel lungo periodo, potrebbe essere necessario rivedere i trattati, ma nel frattempo dobbiamo sfruttare al massimo gli strumenti già esistenti. L’Europa ha già a disposizione meccanismi per agire più rapidamente purché vi sia la volontà politica di utilizzarli – ad esempio le cooperazioni rafforzate tra piccoli gruppi di Stati e le cosiddette “closed field” per apportare modifiche mirate (ndr), e l’integrazione europea è già differenziata in molti campi. Ma su questioni di questa portata è fondamentale agire con unità”. Anche il recente appello di Mario Draghi al Parlamento europeo – “Do something!” – ha messo in luce chiaramente la responsabilità degli Stati membri: il futuro dell’Unione europea dipende dalla volontà politica dei governi nazionali. Tuttavia, il nazionalismo resta il principale ostacolo all’integrazione europea. Goulard e Mario Monti lo avevano già evidenziato in un libro pubblicato nel 2012: molti leader politici rivendicano come proprie misure che in realtà derivano dall’azione dell’Ue. Goulard stessa insiste molto sulla necessità di superare queste resistenze: “La sovranità nazionale è un concetto importante, ma in un mondo globalizzato nessuno Stato europeo può affrontare da solo le condizioni attuali. Solo unendo le forze possiamo garantire sicurezza e stabilità”. Di fronte alle sfide globali, la cooperazione non è più una scelta, ma una necessità. Non vi è tuttavia unanimità di vedute sul tema, nemmeno all’interno delle stesse istituzioni europee. L’Unione, pur avendo una politica di sicurezza comune, non ha competenze militari dirette. La difesa e la sicurezza restano prerogative nazionali, con iniziative come la Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) che cercano di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri. Nonostante ciò, negli ultimi anni sono emerse iniziative come il PESCO (Permanent Structured Cooperation), che mira a rafforzare la cooperazione in materia di difesa, ma si tratta ancora di un rafforzamento della collaborazione e non di un esercito comune.

Il piano ReArm Europe è per questo stato presentato ai sensi dell’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue che consente all’esecutivo di presentare una proposta direttamente al Consiglio in caso di emergenza, “bypassando” il Parlamento europeo. Introdotto nei Trattati nel 2007, questo articolo è stato utilizzato solo in rare occasioni, tra cui durante la pandemia di Covid-19. Manfred Weber, leader del gruppo del Partito Popolare Europeo (PPE) al Parlamento, ha tuttavia evidenziato la necessità di rafforzare la legittimità democratica del processo, sollecitando un maggiore coinvolgimento dell’Eurocamera. Un’altra questione aperta è la governance del piano. Quale sarà il ruolo della Commissione Europea rispetto ai governi nazionali? Chi prenderà le decisioni strategiche sulle priorità d’investimento? Il rischio è che la mancanza di una leadership chiara possa rallentare l’attuazione del programma e creare divisioni tra gli Stati membri.

Il caso italiano è particolarmente emblematico, con leader politici in disaccordo e partiti divisi anche al loro interno. Come evidenziato da una ricostruzione a cura di Pagella Politica, se oggi il piano ReArm Europe fosse sottoposto al voto del Parlamento italiano verrebbe con ogni probabilità bocciato. Questo tema ha influenzato, almeno in parte, anche la mobilitazione del 15 marzo che ha visto la partecipazione di circa 50mila persone alla piazza per l’Europa organizzata a Roma. Accanto agli slogan pro-Europa e alle bandiere della pace sventolate insieme a quelle di Ucraina e Georgia non sono mancati cori contro la politica del riarmo. Questa prospettiva del resto presenta diverse aree grigie, anche sul fronte economico. Senza un sistema solido, finanziare questo sforzo sarà impossibile. Come sottolineato nel comunicato stampa diffuso dopo la riunione del Consiglio, è necessario completare l’Unione dei Mercati dei Capitali e superare le attuali inefficienze attraverso l’aggregazione della domanda di armamenti, munizioni e altri beni strategici, oltre all’armonizzazione dei sistemi per favorire l’interoperabilità. Il budget annunciato dalla presidente della Commissione però ha sollevato non poche preoccupazioni sul possibile ridimensionamento dei fondi desti nati alle politiche di coesione. A questo proposito, Goulard osserva: “L’Europa deve trovare un equilibrio tra sicurezza e sviluppo economico. Non si tratta di scegliere tra difesa e coesione, ma di rendere più efficiente l’uso delle risorse esistenti. Siamo figli della pace del dopoguerra, e ciò ci ha permesso di costruire il nostro modello sociale e di solidarietà europea. Lo dico con rammarico, perché preferirei investire nello sviluppo, nell’educazione e nella sanità, ma oggi ci troviamo di fronte a un’emergenza. Finora abbiamo risparmiato sui costi della difesa perché erano coperti dagli Stati Uniti. Ora viviamo in un mondo nuovo, in cui dobbiamo, purtroppo, destinare molte più risorse alla sicurezza e alla difesa”.

Lo spazio di manovra a disposizione degli europei, secondo Goulard, si può riassumere così: “Non condivido chi adotta un atteggiamento eccessiva mente negativo. È vero, abbiamo punti di debolezza: la tecnologia, l’intelligence e la logistica militare. Ne siamo consapevoli. E non dico che si possa risolvere tutto da un giorno all’altro, ma allo stesso tempo abbiamo anche punti di forza. La nostra spesa complessiva per la difesa, sommata, rappresenta tra un terzo e la metà di quella degli Stati Uniti. Non è affatto irrilevante. Il problema è che sprechiamo queste risorse, perché vengono impiegate in modo disorganizzato, con acquisti non coordinati e sistemi non compatibili. Ma i fondi ci sono già. Con economie di scala potremmo ottimizzare ciò che abbiamo. Se poi investiamo di più e utilizziamo i fondi in modo efficace, possiamo valorizzare le nostre tecnologie e le nostre aziende del settore che esistono e sono solide: dall’Italia alla Francia, dalla Germania alla Svezia, fino alla Repubblica Ceca. Abbiamo competenze, ingegneri e capacità creativa. Non siamo affatto secondi a nessuno, perché l’Europa è una regione ricca e ben strutturata. Non dobbiamo essere arroganti, ma neppure eccessivamente pessimisti. Abbiamo commesso errori enormi, ma non vedo perché non possiamo colmare il divario, a patto di iniziare subito. E se lavoriamo insieme, evitando programmi frammentati su base nazionale e puntando davvero sulla cooperazione, potremmo anche ottenere un risparmio. Inoltre, l’Europa dispone di un’enorme quantità di risparmio privato: centinaia di miliardi ogni anno, come dimostrano diversi rapporti, tra cui quelli di Draghi e Letta. I nostri istituti centrali hanno acquistato nel tempo titoli di Stato americani: questo ci dà un margine di manovra e uno strumento di pressione economica. Quindi, più che un problema economico, si tratta di una questione psicologica e morale: dobbiamo capire che è necessario agire, e farlo rapidamente. Guardiamo a Putin: ha aumentato la spesa militare al 40% del PIL russo, sta ampliando l’esercito di 300mila uomini e investendo enormi risorse nella difesa. La Bielorussia, ormai quasi un’appendice di Mosca, rafforza ulteriormente la sua posizione. Di fronte a questo scenario, dobbiamo restare uniti: il rischio concreto è che Putin possa puntare almeno ai Paesi baltici. Se gli Stati Uniti dovessero allentare il loro impegno, ci troveremmo in grave difficoltà. Finora, l’unico vero deterrente per Mosca è stata la garanzia della NATO e, in particolare, la protezione americana. Ma il momento che stiamo vivendo è estremamente fragile: dobbiamo prendere molto sul serio ciò che sta accadendo”. E ribadisce con forza: “Il futuro dell’Europa dipende dalla sua capacità di agire con determinazione. Non possiamo permetterci di restare fermi mentre il mondo cambia attorno a noi”.