L’articolo è pubblicato nell’ultima edizione cartacea della rivista trimestrale La Nuova Europa (ottobre-dicembre 2025)
Il multilateralismo è figlio di un modo di concepire le relazioni internazionali fondato da un lato sul riconoscimento reciproco, dall’altro sul principio della sicurezza collettiva, che fu al centro dell’azione – fallita sotto tanti profili – della Società delle Nazioni nel corso degli anni Trenta.
Dopo la tempesta dei totalitarismi distruttivi, che incendiarono l’Europa “stabilizzata” dal trattato di Versailles del 1919, nel 1945 sia il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt sia Josif Stalin, con la partecipazione anche del primo ministro britannico Winston Churchill, elaborarono su proposta di Roosevelt la teoria dei “quattro poliziotti”, quattro nazioni volenterose che avrebbero collaborato tra di loro per realizzare il sogno di un mondo stabile e finalmente in pace. Gli USA avrebbero garantito l’ordine del continente americano nella sua interezza; la Gran Bretagna avrebbe vigilato sulla situazione europea; l’URSS e la Cina nazionalista avrebbero, ognuno per la sua parte, regolato l’area euro-asiatica e quella dell’Estremo Oriente. Si trattava del Grand Design del presidente statunitense: un progetto di collaborazione fattiva che aveva nell’Organizzazione delle Nazioni Unite il suo centro politico e il suo motore principale. I quattro poliziotti, con l’aggiunta della Francia, erano le nazioni che sedevano all’interno del Consiglio di Sicurezza in maniera permanente e nessuna decisione del Consiglio poteva essere presa senza il loro preventivo consenso unanime.
Questo sistema si fondava sulla concordia e sulla teorizzazione di un approccio multilaterale; per funzionare in maniera efficace aveva bisogno di un elemento, che venne però presto a mancare: la concordia stessa.
Attraverso le prove sia della guerra di Corea sia della “sporca guerra” in Vietnam, e navigando a vista attraverso tutte le crisi degli anni ’60 e ’70, il sistema provò la sua inefficacia relativa, mantenendo tuttavia quasi intatto il valore del multilateralismo, anche se lo si declinava solo considerando centrali i Paesi “occidentali” e tenendo tutti gli altri in mero conto statistico, come sussidiari e complemento di un “centro” regolatore. In questo senso la collaborazione tra gli Stati Uniti d’America e gli europei, pur con pochi alti e molti bassi, rappresentò in effetti una sorta di multilateralismo che oggi però, dopo la caduta del Muro di Berlino, dimostra di non essere più valido.
Il mondo non è più quello degli anni ’50: l’“Occidente” rappresenta soltanto uno scarso 10% del mondo; gli Stati Uniti sono in evidente difficoltà nel mantenere una posizione non tanto egemone, ma almeno di superiorità relativa, e sono comparsi nuovi attori, privi nel loro DNA del concetto stesso di multilateralismo così come venne definito tra la fine del secondo conflitto mondiale e la guerra fredda.
La Cina da sola rappresenta il 30% della produzione manifatturiera mondiale; l’Unione Europea nel 2000 (25 anni fa) rappresentava il 25% di tale produzione, oggi raggiunge a malapena il 15%. Gli Stati Uniti ancora meno. Il declino del multilateralismo è il declino dei suoi principali attori e ispiratori. Gli equilibri mondiali cambiano, cambiano anche i parametri. Questo porta inevitabilmente a un profondo cambiamento: nessuno dei nuovi attori comparsi sulla scena ha una storia di attività multilaterale, né la Cina, né l’India, né i tanti Paesi che si affacciano sulla scena e che, per dimensioni e capacità economica, sono destinati a giocare un ruolo significativo ma inevitabilmente limitato.
La Cina è in ogni caso il candidato più credibile in uno scenario di trasformazione. Una grande capacità di penetrazione economica e commerciale, un apparato militare imponente ma usato con eccezionale parsimonia, il controllo di strumenti di investimento e influenza economica concentrati soprattutto in Asia ma con potenzialità di proiezione internazionale, come ad esempio la Asian Infrastructure Investment Bank, vero colosso per i finanziamenti strutturali in Asia e Pacifico, che si pone in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale e non vede la partecipazione degli USA (ma invece di molti Stati dell’UE, Germania e Italia comprese).
In questo contesto c’è solo un problema: la Cina non ha una storia di partecipazione attiva a sistemi multilaterali politici e diplomatici, mentre si concentra sull’attività di penetrazione commerciale ed economica spesso svolta in splendid isolation.
Un altro attore cruciale, l’Unione Europea, è il grande assente. Travagliata dalla sua dimensione e rilevanza sul piano economico internazionale e dalla sua incapacità di operare come soggetto unico, riesce a farlo con fatica per quanto riguarda la politica commerciale e la produzione di norme e regolamenti che sono trend setters per tutti gli altri sistemi economici e produttivi, ma poi si ferma lì, mancando quella incisività di azione che solo un unico centro politico può dare. Gli Stati Uniti, invece, che questa unicità di azione ce l’avrebbero, gestiscono in maniera ossessiva il loro declino economico in presenza di altri attori in ascesa, per mano di un presidente ossessionato dall’idea di riportare le lancette della storia agli anni ’50 del Novecento, quando gli Stati Uniti guidavano il “mondo libero”.
Oggi quel mondo si limita a una porzione del globo: il resto non è né libero né pronto ad accettare una guida ormai compromessa, culturalmente e politicamente. La deindustrializzazione statunitense, la sua primazia relativa ormai limitata al campo dei servizi digitali e finanziari, mostra con tutta evidenza il paradosso del XXI secolo: nessuno Stato oggi ha il controllo completo di tutti quei fattori economici, politici, finanziari e militari che costituiscono il fondamento dell’egemonia, ma nello stesso tempo nessun soggetto ha l’intenzione o la forza di guidare processi e strutture multilaterali che invece servirebbero in maniera disperata in un contesto dominato da pulsioni egemoniche incapaci di imporsi.
In un mondo dominato dai sovranisti e da un concetto di “ruolo centrale” ossessivamente predicato, manca un sovrano credibile che guidi processi e ispiri strutture di collaborazione globale e condivisa. Peggio ancora, chi se ne intesta il controllo presunto rifiuta di collaborare con gli altri: gli Stati Uniti sul piano militare, la Cina su quello economico e commerciale, l’Europa su quello della regolazione degli standard produttivi e della qualità complessiva, con una spolverata di ecologia post-industriale. Tutti hanno una parola da dire, ma nessuno si parla veramente.
Andrebbe riscoperto il valore dell’interdipendenza, base del multilateralismo, ma tale principio viene messo in discussione anche nello spazio europeo, quello che più ha tratto vantaggi dalla strutturazione dell’interdipendenza in meccanismi di integrazione. Gli altri si presentano invece recisamente “soli al comando” e refrattari a ogni condivisione.
Il paradosso è questo: il lento suicidio del sistema internazionale, tornato a pratiche anarchiche incontrollate, e la persistenza di modelli culturali e valori che ormai si riferiscono a un mondo in fase di tramonto e trasformazione. Quando cambiano i rapporti di forza sulla scena internazionale c’è sempre un periodo più o meno lungo di transizione, durante il quale si assiste alla definizione di nuovi equilibri. Il vecchio resiste al cambiamento e il nuovo cerca di imporsi. Noi sogniamo un qualche sistema regolativo che garantisca la stabilità, ma è come cercare di fare l’uncinetto mentre si è su un gommone in mezzo alle rapide di un fiume. E le acque calme sono molto lontane.