Il seguente contributo, a firma Claudio Di Maio e Chiara Esposito, è pubblicato nell’ultima edizione cartacea della rivista trimestrale La Nuova Europa (ottobre-dicembre 2025)

 

Negli Stati Uniti la libertà di pensiero è da oltre due secoli un pilastro della democrazia. Il Primo Emendamento, con la sua tutela ampia della parola, l’ha trasformata in un simbolo identitario. Il cuore del modello americano è la possibilità di esprimere opinioni anche radicali o impopolari, purché non si traducano in minacce o incitamento alla violenza. Ma questo principio non è mai stato monolitico: riflette paure collettive, innovazioni tecnologiche e mutamenti sociali.

In questo momento storico, l’equilibrio democratico negli Stati Uniti sembra sempre più condizionato dal rapporto tra comunicazione e potere politico. Salgono così agli onori della cronaca i toni polarizzanti e solenni del funerale di Charlie Kirk, eretto a simbolo del diritto di parola, mentre la carriera di chi lo critica, come il comico Jimmy Kimmel, rischia di essere compromessa.

Ecco, quindi, che un principio come quello della libertà di parola sembra trovarsi al centro di una rinnovata tensione trasformativa in cui il conflitto si consuma nella sfera linguistica e mediatica più che in quella del diritto o giudiziaria.

Spiega il giurista Marco Bassini, professore di Diritti fondamentali e Intelligenza artificiale alla Tilburg University: «Parlare di un’erosione del Primo Emendamento oggi è possibile, ma attraverso lenti interpretative di natura politologica. Per esempio, nel mio settore ho osservato casi in cui studi legali o aziende sono stati oggetto di atteggiamenti ostili, o di iniziative da parte dell’amministrazione statunitense, senza però che vi fossero vere e proprie misure legislative. Lo stesso si può dire per il mondo accademico: negli Stati Uniti ci sono state pressioni su università che avevano ospitato proteste o dibattiti scomodi. Si tratta di interventi politici, non legislativi, ma che servono come “avvertimenti” volti a scoraggiare determinate posizioni, come accade anche per chi avvia cause contro l’amministrazione stessa. Gesti mirati, al momento privi di un quadro di delegittimazione pienamente sistematico. In altre parole, una forma d’influenza che indirizza le dinamiche sociali evitando lo scontro giuridico diretto. In assenza di provvedimenti concreti è quindi legittimo evidenziare tendenze, atteggiamenti e dichiarazioni che rivelano un certo clima culturale o istituzionale – una sorta di sentiment – di deriva illiberale. Ma possiamo dirci di fronte a una deriva “di fatto”, non “di diritto”».

Un approccio sottile che evita d’intaccare direttamente e dall’interno il pilastro della libertà di parola: «Finché restiamo nell’ambito politico – continua Bassini – le corti non possono intervenire. Diventano sindacabili solo le decisioni che si traducono in norme o atti amministrativi con una certa incisività strutturale». La miliardaria causa per diffamazione intentata ai danni del New York Times ne è l’esempio plastico: sferrare un duro colpo alla realtà più solida ed emblematica per scoraggiare testate minori a percorrere la stessa strada.

Questa tensione si concentra nello spazio digitale, dove il baricentro del potere sulla parola si sposta dallo Stato alle piattaforme. Internet, inizialmente immaginato come uno spazio anarchico e libertario, libero dall’intervento degli Stati, è diventato il luogo privilegiato del confronto pubblico e politico. A fare la differenza è stata l’ascesa delle grandi piattaforme digitali, i cui servizi non si limitano a offrire spazi di comunicazione, ma strutturano e regolano, attraverso algoritmi e condizioni contrattuali, l’accesso stesso al discorso pubblico. In assenza di un intervento regolatorio incisivo, queste imprese private hanno acquisito un ruolo quasi para-istituzionale, esercitando un potere che ricorda, per intensità e conseguenze, quello tipicamente riservato ai poteri pubblici.

Da qui la nozione, sempre più discussa dagli esperti, di “privatizzazione della censura”: non più una limitazione della libertà proveniente dallo Stato, ma l’effetto delle decisioni unilaterali di soggetti economici che governano gli spazi del dibattito globale. Il caso della sospensione di account di figure pubbliche di primo piano, avvenuta in seguito a episodi di forte tensione sociale, ha reso evidente questo spostamento di potere. La decisione di una piattaforma privata di escludere una voce dal dibattito produce effetti che travalicano il rapporto tra fornitore e utente. Le dottrine americana ed europea hanno messo in luce come i social network abbiano ormai assunto il ruolo di infrastrutture essenziali della comunicazione contemporanea: essere esclusi da esse equivale, in altre parole, a perdere l’accesso alla piazza pubblica moderna, spingendo a ripensare categorie tradizionali come la distinzione tra pubblico e privato.

La Corte Suprema, in alcune pronunce, ha usato metafore eloquenti definendo Internet il luogo in cui si realizza quel “mercato delle idee” immaginato da Holmes all’inizio del Novecento. Altri giudici, tuttavia, invitano alla prudenza, rilevando che equiparare i social network a spazi pubblici tradizionali potrebbe generare conseguenze normative complesse.

La questione, insomma, non è solo teorica, ma radicata nell’architettura stessa dello spazio di conversazione e delle sue regole. Sia nel dibattito online che in quello offline, il nodo da sciogliere resta il medesimo: trovare un modo per garantire che il dissenso, anche quando impopolare o divisivo, possa esprimersi senza che poteri pubblici o privati ne determinino arbitrariamente i confini. Da un lato, gli Stati Uniti restano fedeli a un modello che concepisce la libertà di espressione come diritto fondativo della democrazia; dall’altro, sono consapevoli che l’assenza di regole può erodere proprio quella libertà che si vuole difendere.

In Europa, invece, il rischio di un effetto domino di quanto accade nella “terra dei liberi” è più contenuto, in primo luogo grazie a un apparato normativo europeo regolatorio in cui il binomio tra libertà di parola e hate speech è molto meno sfumato. Conclude Bassini: «Negli USA non esiste una legislazione specifica sull’hate speech, perché sarebbe difficilissimo renderla compatibile con il Primo Emendamento. La distinzione tra propaganda e incitamento all’odio è molto sottile e per questo si tende a non legiferare. La Corte Suprema ha interpretato la libertà di parola in modo estremamente ampio: ha persino tutelato manifestazioni di gruppi neonazisti o il cross burning, considerandole espressioni protette, salvo che non costituiscano un incitamento diretto alla violenza o turbino l’ordine pubblico.

In Europa simili comportamenti sarebbero puniti penalmente. Non credo che l’Europa rischi di essere travolta tanto facilmente dal clima che monta negli States, anche se le influenze culturali sono sempre possibili. Qualora accadesse, siamo “preparati” poiché inseriti in un contesto di maggiore regolazione. L’Europa tutela la libertà di espressione in modo più limitato rispetto agli Stati Uniti. Da noi è più facile imporre restrizioni in nome di altri interessi: la sicurezza, la correttezza del dibattito pubblico, la lotta alla disinformazione. Il tema stesso della libertà di parola ad ogni modo è intrinsecamente ambiguo e difficile da delimitare. È un equilibrio complesso, e probabilmente continuerà a esserlo».

In un’epoca in cui le parole diventano armi e gli algoritmi arbitri del confronto, la libertà di espressione è sempre meno una formula costituzionale e sempre più un terreno di contesa politica.