La drammatica vicenda della visita di Zelensky alla Casa Bianca settimana scorsa, non è solo l’ultimo capitolo di una serie di incomprensioni tra il presidente ucraino e l’intera nuova amministrazione statunitense. Essa deve essere considerata come un tornante della storia perché mostra in modo plastico il ritiro degli Stati Uniti da quel nucleo di valori “euroamericano” imperniato attorno alla difesa delle libertà su cui si è costruito l’ordine internazionale uscito dal dopoguerra.
É in questa linea interpretativa che va collocata la vicenda di Trump e di Zelensky che ha portato alla rottura manifestatasi l’altro giorno nello studio ovale. Il tentativo di de-occidentalizzazione del mondo apertamente intrapreso da Putin (con l’avallo di una serie di alleati strategici) con l’invasione dell’Ucraina, nel tentativo di ricostruire un proprio spazio spirituale e porre così le basi di un nuovo ordine multipolare, ha finito per condurre alla de-occidentalizzazione dell’Occidente stesso, di cui è espressione la vittoria di Trump tesa a definire un nuovo regime a Washington e di conseguenza un nuovo ordine mondiale. In questo senso, la svolta storica di Trump è duplice: da una parte legittima un nuovo assetto internazionale basato su civiltà indipendenti e sovrane, rigettando l’universalismo dei valori, dall’altra, abbandona l’Occidente in nome degli interessi supremi della nazione americana che va definendosi sempre più come civiltà a sé stante da quella europea. In questo modo, gli Stati Uniti si richiamano ad un passato mitizzato come età dell’oro, fuori dall’alleanza storica con l’Europa e con una propria sfera di influenza nell’emisfero occidentale. L’endorsement per l’AFD e per le destre estreme in generale, l’abbandono dell’Europa alle mire espansionistiche di Putin, la guerra commerciale intrapresa con i dazi e le recenti dichiarazioni di Donald Trump, secondo cui l’Unione europea sarebbe nata “per fregare” gli Stati Uniti, rappresentano tutti tentativi per colpire la comunità europea in quanto comunità sovranazionale portatrice di valori universali e in quanto tale “eretica” rispetto alle civiltà (Usa, Cina, Russia, India) destinate a fungere da pilastri del nuovo ordine mondiale.
Per l’Europa tutto ciò rappresenta un pericolo mortale per via della sua incompiutezza. Essa paga l’errore di non aver colto l’occasione storica che veniva dalla proposta della Comunità Europea di Difesa (CED), di cui De Gasperi fu promotore insieme a Spinelli nel tentativo di dare uno slancio federalista alla costruzione europea. Il rifiuto francese del 1954 costrinse la Comunità europea ad avviarsi sulla sola strada percorribile, quella dell’interdipendenza economica, lasciando la politica in mano agli Stati. Allora però la comune identità occidentale tra Stati Uniti ed Europa permise a quest’ultima di godere della libertà e della pace garantite dalla protezione militare americana. E questa stessa linea fu sostanzialmente confermata dopo la caduta del Muro nel 1989, quando l’allargamento e l’approfondimento dell’integrazione comunitaria non mutò il quadro di fondo, lasciandola allo stato “erbivoro” nell’illusione propria del tempo che la semplice integrazione economica avrebbe creato le premesse della pace perpetua.
Scriveva Julien Benda negli anni trenta del Novecento, nel suo celebre Discorso alla nazione europea: “L’Europa si farà come si è fatta la nazione. Quest’ultima non è stata un semplice raggruppamento di interessi materiali. Essa è veramente esistita soltanto il giorno in cui ha posseduto un sistema di valori appropriato alla sua natura, il giorno in cui nel XIX secolo si è costituita una morale nazionalista”. L’Europa non fu fatta abbiamo avuto la guerra, disse Schuman all’indomani della seconda guerra mondiale. Così dobbiamo amaramente ripetere oggi, perché l’unione incapace di costruire una propria soggettività politica è rimasta una grande incompiuta, facendo di fatto fallire il suo principale obiettivo, garantire la pace.
La rivoluzione geopolitica in corso caratterizzata dal “ritorno delle tribù”, come diceva l’ultimo Bauman, può e deve rappresentare un’occasione per costringere l’Europa a ripensare se stessa e a strutturarsi con una propria identità valoriale e politica non solo economica, uscendo da quella natura ibrida che ne ha fatto un gigante economico e un nano politico. “Do something!”, ha gridato Draghi al Parlamento europeo, consapevole che l’Europa deve agire in modo unitario se vuole difendere i suoi valori oggi in pericolo; essa deve uscire dallo stato di minorità acquisendo i caratteri di una “nazione europea” superiore alla somma delle nazioni che la costituiscono.
La portata della sfida l’ho colta in un recente viaggio con un gruppo di studenti di scuole romane organizzato dall’Associazione La Nuova Europa presso le istituzioni europee a Bruxelles. Nella visita alla Casa della Storia Europea ci siamo imbattuti in un celebre manifesto degli anni cinquanta del Novecento, redatto dall’allora Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Jean Monnet. L’immagine, molto iconica, presenta un omino raffigurante gli Stati Uniti d’Europa mentre cerca di farsi spazio tra due blocchi rappresentati dagli Stati Uniti d’America e dall’Urss. Sopra questa immagine c’era scritto: “Gli Stati Uniti d’Europa ti salveranno dall’annientamento”.
Il manifesto assume oggi il suo autentico significato. Se finora infatti gli Stati Uniti d’America, considerandosi parte della stessa civiltà occidentale, garantivano la sicurezza dell’Europa, nel momento in cui inaugurano una guerra commerciale e ideologica con l’Unione europea rischiano di ridurla a vassalla dei nuovi imperi. Da questo punto vista, gli Stati Uniti d’Europa diventano una necessità esistenziale, come aveva percepito già Churchill nel 1946 a Zurigo, perché gli europei possano “vivere in pace, sicurezza e libertà”.
In questo senso, il ritorno in grande stile di una Germania forte rappresenta una speranza per l’Europa. Essa è consapevole di dover proseguire in quella “svolta epocale” iniziata con la decisione di investire nel riarmo e che consiste nel considerare la difesa e la sicurezza come valore prioritari rompendo un tabù storico. Così la Germania si è avviata ad una trasformazione genetica che le permette di fare i conti con se stessa e con l’illusione seguita al crollo del muro di Berlino di potersi garantire la pace attraverso la mera interdipendenza economica. Ciò che accade in Germania da questo punto di vista è decisivo per l’Europa intera. La Germania è sin dalla sua rinascita nel dopoguerra la coscienza stessa dell’Europa. Lo fu nel 1950, quando un anno dopo la decisione americana di costruire una grande Germania federale dell’ovest nacque il primo accordo europeo; e lo fu anche con la riunificazione nel 1990, che portò alla nascita dell’Unione Europea. La rivoluzione culturale che investe la Germania, e che la porterà ad essere nuovamente un potente stato al centro dell’Europa, rappresenta la circostanza decisiva per il salto di qualità europeo non più differibile.
Nel momento storico in cui l’Europa si trova per la prima volta sola a difendere la sua esistenza, si risente il potente appello lanciato da Churchill all’indomani della guerra: “Fate sorgere l’Europa!”.