Negli ultimi giorni diversi quotidiani nazionali hanno dato risalto alle stime della Commissione Europea sull’ occupazione giovanile in Italia. Il Paese nato con la Giovane Italia di Mazzini è, ad oggi, tutto tranne che un Paese per giovani. Eppure questa generazione, i ragazzi sotto i 35 anni, dovrebbe essere stando ai numeri quella più colta e preparata che il Paese abbia mai visto fin dalla sua creazione. Cosa sta succedendo?
Secondo l’ISTAT un giovane su cinque è così sfiduciato che non cerca lavoro né studia. Il 40% dei giovani in età lavorativa (25-34 anni) non riesce a trovare un’occupazione e il restante la trova con una retribuzione ben al di sotto delle sue qualifiche e con contratti a tempo o stagionali. Un giovane professionista guadagna tra il 60% e il 70% in meno rispetto ad un suo collega a fine carriera e nella maggior parte dei casi al suo stipendio si devono sottrarre gli accantonamenti per la pensione integrativa, visto che a parità di contributi versati sa già che riceverà infinitamente meno dei suoi colleghi più anziani. Questo porta anche a delle conseguenze sociali che dovremmo definire drammatiche: quasi il 70% dei giovani sotto i 33 anni vive ancora in casa con i genitori (il 70%!), un fatto quasi unico non solo in Europa ma nel mondo. L’età del matrimonio, per chi lo celebra ancora, si sposta quindi dopo i 33 anni, cosa che, sommata al resto, incide inevitabilmente sul numero delle nascite. Non deve sorprendere in questo panorama quella che è l’unica reazione possibile, ossia l’espatrio. Circa 100.000 giovani l’anno lasciano l’Italia, diretti principalmente verso altre destinazioni europee. Sono giovani con ottime qualifiche professionali e alti livelli di istruzioni, in poche parole la potenziale classe dirigente del futuro. L’emorragia verso l’estero è inarrestabile ed è ormai così consolidata che molti genitori mandano direttamente i figli a studiare nel Regno Unito e in Belgio, augurandogli di non tornare. Quel numero di italiani espatriati, circa 100.000, è poco meno del numero di immigrati che, secondo le stime, servirebbero per integrare il tessuto sociale italiano ed evitare il crollo anagrafico, con la conseguente ricaduta negativa sulle pensioni che ci sono state recentemente spiegate dall’INPS.
Questo ci aiuta perfettamente a delineare il quadro di quanto sta accadendo in Italia: il Paese ha grande bisogno di mano d’opera a basso costo (i giovani che rimangono) o quasi gratuita (gli immigrati). Al contempo i giovani italiani con più aspettative aspettano per creare una famiglia che le loro condizioni si avvicinino a quelle che avevano i loro genitori quando hanno intrapreso lo stesso percorso. Una cosa che avviene, quando avviene, già in piena età adulta. Questo porta ad una contrazione inevitabile delle nascite, fatto che, sommato al numero consistente di giovani espatriati, richiede un flusso migratorio sempre più intenso per rendere il sistema italiano sostenibile.
A questo punto la domanda sorge spontanea: lasciando da parte complotti o dietrologie, perché l’Italia, già con livelli d’istruzione mediamente più bassi rispetto alla media europea (anche se più alti rispetto al passato), ha sempre meno bisogno di persone qualificate e istruite e sempre più bisogno di mano d’opera a basso costo? La risposta potrebbe essere in due dati. Il primo è la il peso della corruzione sul sistema italiano. L’anno scorso si è stimato che con un livello di corruzione “endemico”, quello che ha per esempio la Germania, l’Italia sarebbe stata complessivamente più ricca di 600 miliardi di euro (anche se la cifra è stata contestata, rende senz’altro l’idea, anche se dovesse essere la metà!). Altro che i quattro o cinque che il nostro governo tenta di elemosinare per arrivare alla fine di ogni anno. Perché la corruzione è legata alla fuga dei cervelli e alla maggiore richiesta di mano d’opera? Semplice, perché la corruzione non produce ricchezza, è un sistema che favorisce pochi raddoppiando i costi e necessita solo di molti intermediari fantasma. Al contempo la corruzione, come sappiamo, si crea anche sul sistema di accoglienza e di inserimento al lavoro dei migranti, ragion per cui è un meccanismo felicemente alimentato da questo ricambio, nel quale i giovani italiani qualificati non hanno voce e grandi masse di sfruttati facilmente ricattabili li sostituiscono. Il secondo dato che dovremmo considerare quando riflettiamo sulla scarsa richiesta di giovani preparati in Italia sta nel numero di pensionati che ancora lavora. L’ISTAT ha stimato circa due milioni di lavoratori pensionati lo scorso anno, quasi tutti in posizioni di dirigenza o intermedie, talvolta mascherate con posizioni di consulenza o similari. I motivi per cui questi anziani continuano a lavorare, al contrario dei molti lavoratori loro coetanei che non vedono l’ora di andare in pensione, è che spesso fanno lavori poco usuranti, con ritmi non incalzanti (cosa che incide negativamente sulla produttività) e alte retribuzioni, che si vanno a sommare alla pensione. Chiaramente è facile per questi lavoratori continuare il mestiere: se nessun giovane viene mai formato ci sarà sempre bisogno di chi ha esperienza in ruoli apicali, inoltre in un Paese in cui la conoscenza è molto più importante della competenza per trovare lavoro, chi ha speso una vita in un determinato ambiente lavorativo può vantare più conoscenze di qualsiasi giovane. A questi due dati si deve aggiungere la struttura dell’ imprenditoria italiana: l’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di piccole e medie imprese a conduzione familiare. Un’impresa di questo genere, per definizione, tende ad assumere lavoratori ma non dirigenti o quadri, visto che le posizioni di direzione sono ricoperti da persone di fiducia del management familiare a cui rispondono e che spesso mancano della necessaria formazione (e a sua volta questo genere di impresa spesso richiede meno figure organizzative o di mediazione, dato lo scarso numero di dipendenti).Si aggiunga che una piccola impresa spende in innovazione circa il 30-40% dei ricavi contro l’85% della grande impresa e si comprende perché anche nel privato non decolli la domanda di figure professionali qualificate.
Questa sconfortante analisi ci porta ad un sondaggio Demos sulle parole del nostro tempo (http://www.demos.it/a01409.php?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P3-S1.4-T2). Lo scopo del sondaggio era capire quali concetti gli italiani ritenevano appropriati al passato e quali al futuro. Parole come “elezioni”, “partiti” o “giornali” sono relegate con decisione al passato, mentre termini quali “lavoro”, “Papa Francesco” o “speranza” sono proprie del futuro. Purtroppo in questa speranza, connessa senz’altro anche al lavoro, manca la parola “giovani”. La parola manca nel sondaggio sia al passato che al futuro. Evidentemente è una parola che si ha difficoltà ad identificare e a categorizzare, anche da parte dei giovani stessi. Come nel limbo dantesco questa è una generazione che corre dietro ad una bandiera bianca e senza potersi guardare indietro, sospesa nel tempo e nello spazio. Quello che manca è una coscienza dei giovani su quali siano i diritti di cui sono titolari e le responsabilità che gli sono richieste, così come una narrazione pubblica, della politica e dei media, sulle nuove generazioni, i loro sogni, le tendenze e le aspirazioni. Invece l’unica narrazione pubblica sui giovani è quella di una generazione colpevole. Colpevole di lasciare il Paese o colpevole, quando resta, di non voler lasciare il nido famigliare o di non voler fare figli (ragion per cui servono quelli dei migranti) o colpevole, questo il paradosso, di non ribellarsi abbastanza o di non far sentire la propria voce.
Insomma una generazione che è meglio perdere che trovare, come sta già accadendo.