Per gli statalisti anti mercato, ammoniva Ronald Reagan, bastano tre regole: se qualcosa si
muove tassalo, se si muove ancora, regolamentalo, se non si muove più sussidialo.
L’ispiratore delle reaganomics non avrebbe mai potuto immaginare la potenza di fuoco della
sharing economy e l’impoverimento salariale di due terzi della popolazione dei 25 Paesi più
sviluppati al mondo registratosi tra il 2005 e il 2014. Oggi potremmo aggiungere: se
aumentano le disuguaglianze, prova a ridurle senza frenare il progresso. Non è facile.
Il numero delle applicazioni è passato da 38.000 nel 2009 a 4 milioni nel 2015, il volume
d’affari dell’economia condivisa nel 2008 valeva 1,9 miliardi di dollari e ora supera i 120
miliardi, nel 2020 negli Stati Uniti il 40% dei lavori sarà autonomo e in qualche modo legato
alla rete. La nuova era poggia su un semplice assunto: la tua casa, la tua auto, il tuo
appartamento, persino il tuo giardino, ti appartengono e da questi puoi trarne profitto. Questa
consapevolezza è divenuta piena nel nuovo millennio ma la potenzialità della condivisione fu
chiara già a Karl Marx nel 1846, quando descrisse la società comunista, usando parole
decisamente profetiche: «la possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare
al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica
dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico». E’ la
migliore definizione dell’economia condivisa. C’è da capire chi protegge il cacciatore, il
pescatore e il critico in quest’epoca di grande trasformazione.
Le forze che hanno spinto il cambiamento, come ho spiegato nel mio libro Disuguaglianze,
agiscono con una velocità senza uguali. La globalizzazione, il mercato unico, la creazione
dell’euro, l’affermazione di internet e delle tecnologie digitali, tutte insieme e ognuna con la
sua spinta motrice, hanno trasformato l’economia digitale nell’ossatura della nuova era
industriale, fatta di internet, delle piattaforme che operano nel web, di commercio online, di
fabbriche robotizzate, di Internet of Things. Oggi ci si chiede se tutto questo progresso
impetuoso abbia funzionato, abbia portato sviluppo, felicità e coesione sociale, visto che la
ricchezza di pochi milionari nel mondo ha raggiunto quella delle nazioni. Una chiara lettura
l’hanno fornita coloro che sono stati intervistati dal World Economic Forum per capire se la
rivoluzione globale avesse migliorato le loro condizioni di vita. Solo per cinesi (45%) e
indonesiani (23%) le risposte sono state affermative. Negli Usa (65%), in Gran Bretagna
(65%), in Germania (59%), in Francia (81%! Non tutti gilet gialli evidentemente), persino a
Hong Kong (71%) e negli Emirati Arabi Uniti (60%), una solida maggioranza ha detto di stare
peggio. Si sente più precaria di prima. E non ha torto ad avere paura. Le top aziende della
Silicon Valley occupano 137.000 dipendenti e capitalizzano 1.000 miliardi di dollari, mentre le
tre sorelle di Detroit delle auto nel 1990 quando Reagan era ormai in pensione, facevano
lavorare 1.200.000 addetti e valevano 37 miliardi. L’aumento del capitale, la riduzione del
lavoro vanno di pari passo con l’inasprirsi delle disuguaglianze. E non importa se l’accesso ai
servizi digitali è una componente essenziale della competitività e fornisce un chiaro benessere
ai consumatori. Il miglioramento delle condizioni di vita passa attraverso portali di proprietà dei
nuovi monopolisti e a questa insicurezza di fondo si aggiungono gli effetti dell’innovazione
«distruttiva». L’innovazione disruptive, di schumpeteriana memoria, è quella che destabilizza e
cambia drasticamente i mercati, segnando una fase di discontinuità nella loro evoluzione. Non
si tratta di miglioramenti tecnologici incrementali, regolari e prevedibili, ma di scoperte
rivoluzionarie, di innovazione di prodotto, di modifiche dei processi produttivi, di modelli di
business impensabili nel Novecento, che portano a cambiamenti inaspettati nel modo di
organizzare la fabbrica, gli scambi e le catene del valore.

Lo scontro tra abitanti del vecchio mondo e nuovi visitatori è fenomenale. E qui entra in gioco il
ruolo dell’Antitrust, perché nelle sue diverse stagioni ha sempre risentito dei cambiamenti nel
rapporto tra mercato, intervento pubblico e teorie economiche del momento.
Gli ex monopolisti sono spesso colti di sorpresa da tali mutamenti radicali e tendono a reagire
con strategie volte a limitare e contenere gli effetti distruttivi dell’innovazione tecnologica. Si
pensi a quanto sta avvenendo, per esempio, ai conflitti tra piattaforme come Uber e Airbnb, da
una parte, e i tassisti e gli albergatori dall’altra. Ma è solo uno dei tanti esempi. A monopoli di
antica schiatta tendono a sostituirsi monopoli di nuova generazione, perché l’innovatore di
successo può sfruttare i vantaggi derivanti dalle economie di scala, dalle esternalità di rete,
dalla possibilità di conquistare consumatori in una dimensione globale e dall’utilizzo
commerciale appunto dei dati personali. Negli Stati Uniti esistono i primi casi di cartelli degli
algoritmi e presto ce ne saranno anche in Europa, la caccia è aperta, perché i nuovi
monopolisti, i ‘’datapolist’’, gli unici padroni dei dati, hanno portato alla società il beneficio
dell’innovazione, ma c’è il rischio che poi utilizzino il loro potere di mercato per impedire che
altri innovino oppure per sfruttare chi utilizza le piattaforme.
Insomma, per la community degli antitrustisti non siamo tornati al potere dei Rockfeller o dei
Rothshild, da cui è scaturita la prima legislazione sulla concorrenza americana, ma il risultato
alla fine è lo stesso. Con la differenza che crescono i conflitti tra chi trae vantaggi
dall’innovazione e chi resta indietro. Secondo le statistiche di Oxfam, nel 2015 appena 62
persone possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, ossia la metà più povera
della popolazione mondiale. Solo nel 2010 erano 388 e dieci anni prima ancora di più. La
ricchezza delle 62 persone più facoltose è aumentata del 44% dal 2010 a oggi, con un
incremento pari a oltre 500 miliardi, arrivando a 1.760 miliardi di dollari. Nello stesso periodo,
la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale si è ridotta di poco più di 1.000
miliardi di dollari, per una contrazione del 41%, e dall’inizio del secolo a oggi ha ricevuto
soltanto l’1% dell’incremento totale della ricchezza globale, mentre il 50% di tale incremento è
andato all’1% più ricco. Anche l’Ocse ha suonato il campanello d’allarme. Nei quindici Paesi
più benestanti la quota dei salari sul Pil si è ridotta tra il 1976 e il 2006 dal 68 al 58% e in Italia,
Irlanda e Giappone il calo ha toccato i 15 punti percentuali (dal 68 al 53%). Nello stesso
tempo, cresce a dismisura la capacità finanziaria delle nuove società digitali che proliferano
grazie alla sharing economy. Airbnb nel 2016 valeva 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per
2,3 e occupa circa 500 dipendenti. L’Italia è il suo secondo mercato mondiale. Uber ha una
valorizzazione tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati
diretti (esclusi, per ora, gli autisti). Aggiungendo a questi tre «unicorni», come li ha definiti
l’«Economist», gli altri magnifici sette, Palantir, Spacex, Pinterest, Dropbox, Wework,Theranos
e Square, si arriva a oltre 80 miliardi di dollari di valutazione. Certo, questi valori potrebbero
sgonfiarsi, basta che qualche app nuova ne spodesti la presenza sugli smartphones. Ma ben
più solide sembrano le posizioni dei big five di Wall Street, Amazon, Apple, Facebook, Google
e Microsoft, che ormai capitalizzano più di un Paese del G7 come l’Inghilterra o la Francia.
All’esigenza di mantenere aperti i nuovi mercati si accoppia quindi anche una forte richiesta di
giustizia sociale. Rispetto al boom della new economy, quando tutti scoprimmo la rete, le cose
sono profondamente cambiate. Da una parte, la perdita di reddito, soprattutto da parte della
classe media, depotenzia la domanda interna; dall’altra, la concentrazione di ricchezza può
spingere chi è già riuscito a fuggire a bloccare alle proprie spalle le vie di fuga percorse.
Questi gruppi sempre più spesso cercano rendite di posizione, sostituendo la concorrenza con
le pratiche concordate, strappando al decisore politico norme di privilegio, oppure
costringendolo nei fatti a scegliere posizioni protezionistiche antistoriche. Per questo c’è chi,
come Stiglitz, ritiene che una delle cause della crisi del 2008 sia da rintracciare proprio
nell’eccesso di disuguaglianze e per questo auspica l’irrobustimento dell’azione antitrust.

Ma davvero si possono ridurre le disuguaglianze usando l’arma dei tutori del mercato?
Certamente gran parte dei problemi delle nostre società coinvolgono proprio il livello di la
concorrenza: la sostituzione della competizione con la rendita, il ruolo cruciale
dell’innovazione, i tentativi da parte di chi ha un elevato potere di mercato di bloccarla,
l’emergere di nuovi monopolisti, la nascita di ulteriori gatekeepers. Probabilmente non sarà
l’Autorità nazionale, europea o americana, a risolvere da sola molte delle questioni epocali che
abbiamo di fronte, ma può ampliare il suo spettro d’azione. Perseguendo gli abusi di posizione
dominante sulle piattaforme digitali, sanzionando i cartelli di prezzo studiati al computer,
colpendo le innovative quanto innumerevoli pratiche commerciali scorrette che insidiano il
risparmio.
L’Antitrust si trova quindi ad agire come un garante della democrazia economica, sempre più
nella contemporaneità dei mercati e dei suoi attori. Stretto nel doveroso equilibrio della sua
azione, per cui non si può rafforzare il debole indebolendo il forte, ma bisogna pur difendere il
primo dagli abusi del secondo. Era così ai tempi di Lincoln e almeno questo non