Chi imbraccia fucili cui partono colpi che colpiscono rom e migranti, oppure chi da’ fuoco ad ostelli per turchi o minaccia ristoratori ebrei non rappresenta ancora una maggioranza xenofoba. Ma se una persona illuminata come Giuliano Amato, paventa il ritorno delle leggi razziali, parlando in un incontro con gli avvocati della comunità ebraica, di cui hanno dato conto Repubblica e la Nuova Europa, significa che non stiamo vivendo un’allucinazione. In Italia e in Europa.

Se c’è un comune denominatore all’Unione di oggi è la sorda insoddisfazione, la rabbia, il senso di impotenza che milioni di persone provano di fronte agli effetti della globalizzazione. Vittima di egoismi e nazionalismi di ogni genere, l’Ue è un puzzle impazzito e i suoi abitanti sono spaventati da chi non appartiene all’inesistente razza bianca del vecchio continente. È il momento di capire perchéaccade tutto questo, partendo da una mappatura della situazione economica, paese per paese, che anticipa sempre le mutazioni sociali. 

 

Ancora nel 2018 il 22% degli italiani vuole tornare alla lira. Non si tratta di matti visionari. Il nodo cruciale è semplice: l’Italia emette debito in una moneta che non controlla. E il cambio dell’euro non ha aiutato. Se alcuni beni hanno fatto registrare negli ultimi sedici anni riduzioni e altri sono rimasti stabili, molti generi di largo consumo, sempre presenti nel paniere delle famiglie, sono diventati più cari. Una pizza, un chilo di pasta, un chilo di vitello in fettine del 69%, persino il tramezzino e il pane, hanno subito aumenti vicini al 100%, tolta l’inflazione. A volare è stato anche il mattone: se i tassi sui mutui si sono dimezzati dal 2002 in poi, prezzi e affitti sono rincarati due volte tanto. Milioni di italiani, per mancati controlli nel periodo di doppia circolazione, per arrotondamenti preventivi, per assenza di sostegni alla perdita di potere d’acquisto, con la moneta unica si sono davvero impoveriti. Schiacciata tra l’austerity imposta da Bruxelles, l’avvento della tecnologia digitale e la perdita di potere d’acquisto, una bella fetta del nostro paese è così rimasta indietro rispetto al resto d’Europa a inizio millennio e poi con la crisi dal 2008 si è inabissato. A dispetto del fatto che da contributore netto abbia versato 50 miliardi di euro per banche e stati stranieri e dopo manovre per almeno 200 miliardi, in dieci anni i poveri in Italia sono raddoppiati, mentre i ricchi milionari sono cresciuti quasi del 10%, il debito pubblico è aumentato del 30% da quando fallì Lehman Brothers, il Pil è ancora indietro rispetto al 2007. Non è quindi un caso se il 70% degli italiani si dica stufo di questa Europa. Una moratoria su Maastricht è l’unica strada per evitare che sia il Belpaese a staccare la spina all’Ue.

Un giro per gli altri paesi europei, mostra analoghe complessità. Vittima di conti truccati e banche straniere che hanno ingigantito il buco, la Grecia, unico paese a proporre una ricetta da sinistra per l’Ue, è stata stritolata. Ha salutato la Troika, ma dovrà pagare interessi su un prestito di 274 miliardi fino al 2060, dopo aver cambiato quattro governi, 450 riforme e privatizzato anche le terme. La povertà è raddoppiata, come il suo debito e rispetto al 2008 il Pil è ancora indietro del 24%. A conti fatti, forse era meglio la Grexit.

La Germania dall’Ue e dall’euro ha invece avuto quasi tutto. Si è ripagata i costi della riunificazione grazie al fatto che l’euro discende dall’Ecu, cucito addosso al marco; ha incassato quasi 1.000 miliardi di capitali in arrivo grazie allo spread, dal deprecato Quantitative Easing ha ottenuto per la sua Bundesbank 2 miliardi di utili aggiuntivi. Mentre il suo surplus vola incontrastato ben sopra il 7% del Pil e persino dal salvataggio greco ha guadagnato 2,9 miliardi di interessi, la disoccupazione è passata in dieci anni dall’8 al 5% e il debito è stabile, poco sopra il 60%. Ciliegina: ha ottenuto da Atene di rispedirle dei migranti non voluti. Un po’ troppo per rappresentare lo spirito dell’europeismo.

Scartata la pista teutonica, affacciamoci ad Est. I paesi dell’ex cortina di ferro oggi crescono il doppio grazie al fatto che hanno ricevuto più contributi comunitari dell’Ovest e offrono lavoro a basso costo. La Polonia ha più che dimezzato in un decennio la disoccupazione (al 4,2 dal 10,6%, quasi record in Ue, battuta solo dall’Ungheria che è al 3%) cresce del 9% rispetto al 2008. Anche Repubblica Ceca e Slovacchia, incuranti dell’aumento del loro debito, vanno a gonfie vele. Peccato che il gruppo di Visegradabbiastracciato ogni traccia di solidarietà, come sancito all’ultimo vertice di Bruxelles. E l’Austria, bastione della destra sovranista in Europa, detiene due record: il numero di foreign fighters in percentuale alla popolazione, il più alto di tutta l’Unione; gli 8,8 milioni di abitanti leggono moltissimo ancora i giornali di carta, il più diffuso, con tre milioni di lettori, il Kronen Zeitung, coltiva patriottismo, xenofobia, disprezzo per le minoranze, ha scritto il Der Spiegel. Il paese guidato dal giovane Kurz ha il fiato corto, la disoccupazione dal 2008 al 2018 è aumentata (dal 4,8 al 7,1%) come il debito (dal 60 all’80% del Pil). E’ presidente di turno, non aspettiamoci buone notizie al Brennero.

 

Altro piccolo ma cruciale paese, l’Irlanda è vasta come una regione ma è grande in termini di profitti per i giganti della rete che vi risiedono fiscalmente. E’ caduta e si è rialzata più volte. Il costo dei salvataggi bancari è arrivato a 58 miliardi di euro, pari a un quarto del suo Pil nel 2008. La disoccupazione è esplosa e poi rientrata, fissandosi al 5%, il debito è però aumentato di ben 30 punti percentuali. Ma le regole le permettono di badare più a stessa che agli altri. Fin quando non arriverà l’Unione fiscale.

Entrando nel cuore dell’Europa storica, le cose non cambiano e le differenze restano enormi. La Spagna, come l’Italia, nel 2011 ha visto il baratro. Si è rialzata con 52 miliardi di aiuti al suo sistema bancario, ma in dieci anni i senza lavoro sono raddoppiati e il debito quasi triplicato (da 36 al 96% del Pil). Si è salvata grazie all’Ue e ora prova a ricambiare tendendo la mano sui profughi, dopo aver chiuso per anni, armi in pugno, porti e frontiere. La Francia di Emmanuel Macron predica bene alla Sorbona ma razzola male nei rapporti con gli altri paesi. Pur avendo un debito molto alto (63% nel 2008 e ora al 96%), una disoccupazione in crescita (9,2% da 7,5% di dieci anni fa) e un’economia presidiata dallo Stato, continua ad avere un voto da prima classe dalle agenzie di rating. Ma il direttorio Parigi-Berlino, che ha goduto di grande benevolenza quando era sopra il tetto del 3% di deficit, scricchiola. 

 

L’Unione di oggi alimenta il sospetto che abbia fatto bene chi è rimasto fuori dalla moneta unica ovvero, pur essendoci entrato, se ne sia poi infischiato delle regole. Fiscal Compact e altre norme contabili, come visto, hanno contribuito a far crescere i paesi europei in maniera disomogenea, e ora gli argomenti che fanno più presa sono l’identità, la difesa dei confini, la supremazia della cittadinanza. A parte la Germania e la Spagna, un po’ ovunque governano formazioni nazionaliste o sovraniste che dir si voglia. Parola d’ordine: prima noi, poi, o forse sarebbe meglio mai, gli altri. 

 

A molti, compreso il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la situazione di oggi ricorda i primi del Novecento, con tutto il carico di paure e di tragedie che si trascina dietro. Senza andare così lontano, viene in mente questo passaggio del discorso di Slobodan Milosevic nel 1989, in occasione dei seicento anni dalla battaglia del Kosovo contro gli Ottomani. “Da quando esistono le comunità multinazionali, il loro punto debole è sempre stato nei rapporti tra le varie nazionalità. La minaccia è che ad un certo punto emerga l’interrogativo se una nazione sia messa in pericolo dalle altre e questo può dare il via ad una ondata di sospetti, di accuse, e di intolleranza, una ondata che necessariamente cresce e si arresta con difficoltà’’. 

 Di Roberto Sommella