UNIONE MONETARIA, DOV’È LA VITTORIA

di Roberto Sommella 

 

Semmai servisse avere una conferma di cosa sono capaci i tedeschi basterebbe pensare che dal 1989 al 1999 hanno buttato giù un muro, riunificato le Germanie, donato una moneta forte a nove milioni di poveri e avviato l’Unione Monetaria che ha fatto poi nascere nel 2002 concretamente l’euro. In molti pensano che fosse tutto un piano per passare dal marco alla moneta unica, pagandosi i costi della riunificazione, e in parte è vero, se si pensa che per due anni si visse in un regime di cambi fissi legati alla valuta teutonica, ma si deve anche alzare lo sguardo e guardare a tutto il resto. Ora che si sta festeggiando vent’anni di condivisione monetaria, la domanda è d’obbligo: è stata un successo senza se e senza ma? E per l’Italia ha rappresentato un vantaggio? 

 

Mario Draghi è stato chiaro sul primo punto. L’Ume non ha ancora raggiunto i risultati voluti. Sono stati due decenni molto particolari. Nel primo si è esaurito un ciclo finanziario espansivo globale durato trent’anni; il secondo è stato segnato dalla peggiore crisi economica e finanziaria dagli anni ’30. L’Unione Monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista ma allo stesso tempooccorre riconoscere che non in tutti paesi sono stati ottenuti i risultati che ci si attendeva, in parte per le politiche nazionali seguite, in parte per l’incompletezza dell’unione monetaria che non ha consentito un’adeguata azione di stabilizzazione ciclica durante la crisi. E’ stato un processo a strappi. Ne è seguita una crescita disomogenea e una mancanza di convergenza economica.

 

Dal 1957 al 2007, e dunque nel primo decennio dell’Unione Monetaria, i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione europea e la ricchezzadelle famiglie è cresciuta di ben quattro volte, con una riduzione delle disuguaglianze che non ha avuto eguali nella storia. L’ultimo decennio di crisi ha invece capovolto questo processo. Si sta allargando la forbice tra i ricchi e poveri e tra regioni arretrate e sviluppate.

L’80% della nuova ricchezza va al 15% della popolazione più agiata. Crescono le asimmetrie, soprattutto per i giovani. In molti Stati membri i salari reali sono fermi dal 2008. Per la prima volta da mezzo secolo, le nuove generazioni sono in difficoltà: 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Ben 118 milioni, il 24% della nostra popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale. Dal crac Lehman Brothers a oggi il Pil della Grecia ha perso il 24%, quello dell’Italia il 6%, tutto il resto è andato meglio: Spagna +2%, Giappone +4,7%, Francia +6,7%, Germania +10,9%, Gran Bretagna +11%, Usa + 14%, Irlanda +38%, Cina +120%. La dittatura della turbo finanza, la mancanza atavica di competitività, l’avvento dell’economia digitale e, indubbiamente, l’austerity della troika applicata (in modo ancora soft e indiretto) a Roma così come (brutalmente) ad Atene e altrove, sono state tra le concause di questa faglia che si è aperta tra le varie economie che non sono ancora convergenti per un motivo molto semplice: c’è il governo della moneta. E basta.

Andando a vedere in dettaglio l’Eurozona questa sensazione aumenta.

Scampata finalmente alla Troika, la Grecia dovrà comunque pagare interessi su un prestito di 274 miliardi ben oltre il 2060 e dopo aver cambiato quattro governi, fatto 450 riforme e privatizzato anche le terme, la povertà èraddoppiata, come il suo debito. Il paese di Tsipras ha una magra consolazione: con qualche euro in tasca pagherà i creditori, ma rispetto al 2008 il suo Pil è ancora indietro del 24%. Forse era meglio la Grexit.

La Germania è ben diversa. Il paese di Angela Merkel dall’Ue e dall’euro ha avuto quasi tutto. Si è ripagata i costi mostruosi della riunificazione grazie al fatto che l’euro discende dall’Ecu, cucito negli ultimi due anni intorno al marco; ha incassato quasi 1.000 miliardi di ca– pitali in arrivo grazie allo spread, dal deprecato Quantitative Easing ha ottenuto per la sua Bundesbank utili aggiuntivi per 2 miliardi di euro. Mentre il suo surplus vola incontrastato ben sopra il 7% del Pil e persino dal salvataggio greco haguadagna- to 2,9 miliardi di interessi, la disoccupazione è passata in dieci anni dall’8 al 5%, il debito è l’unico a rispettare il parametro di Maastricht, passando dal 64,9% del 2008 al 65,7% sul Pil nel 2018.

I paesi dell’Est Europa, che oggi crescono il doppio rispetto ai partner dell’eurozona, grazie anche al fatto che hanno ricevuto più contributi comunitari dell’Ovest, derivanti da quell’allargamento benedetto proprio da Prodi, sembrano coesi. La loro è una storia di successo: forti del fatto che non hanno l’euro, hanno sostituito le tigri asiatiche nel cuore di tanti imprenditori che vogliono produrre a bassi costi. E così, la Polonia ha più che dimezzato in un decennio la disoccupazione (al 4,2 dal 10,6%, quasi record in Ue, battuta solo dall’Ungheria che è al 3%) cresce del 9% rispetto al 2008: è una piccola Germania d’Oriente. Anche Repubblica Ceca e Slovacchia, incuranti dell’aumento del loro debito (rispettivamente in due lustri passato da 26 a 35% e da 35 a 51%) vanno a gonfie vele. Peccato che il gruppo di Visegrád abbia stracciato ogni traccia di solidarietà. E l’Austria non è da meno. Bastione della destra sovranista in Europa, detiene due record: il numero di foreign fighters in percentuale alla popolazione, il più alto di tutta l’Unione. Il paese guidato dal giovane Kurz ha il fiato corto, la disoccupazione dal 2008 al 2018 è aumentata (dal 4,8 al 7,1%) come il debito (dal 60 all’80%del Pil). L’Irlanda, piccola come una regione, grande in termini di profitti per i giganti della rete che vi risiedono fiscalmente, è caduta e si è rialzata più volte. Il costo dei salvataggi bancari è arrivato a 58 miliardi di euro, pari a un quarto del suo Pil nel 2008. La disoccupazione, con effetto fisarmonica in due lustri è esplosa e poi rientrata, fissandosi al 5%, il debito è aumentato di ben 30 punti percentuali, restando però molto sotto il Pil (38,9%). Le regole le permettono di badare più a stessa che agli altri. Fin quando non arriverà una web tax, si intende.

La Spagna, come l’Italia, nel 2011 ha visto il baratro. Si è rialzata con 52miliardi di aiuti al suo sistema bancario, ma in dieci anni i senza lavoro sono raddoppiati e il debito quasi tri- plicato (da 36 al 96% del Pil). Si è salvata grazie all’Ue e ora prova a ricambiare tendendo la mano sui profughi, dopo aver chiuso per anni, armi in pugno, porti e frontiere.

La Francia poi non può arrogarsi il compito di leader. Emmanuel Macron, stretto d’assedio oggi dal malcontento popolare, predica bene alla Sorbonama razzola male nei rapporti con gli altri paesi. Pur avendo un debito molto alto (63% nel 2008 e ora al 96%), una disoccupazione in crescita (9,2% da 7,5% di dieci anni fa) e un’economia molto presidiata dallo Stato, continua ad avere un voto molto alto dalle agenzie di rating, affascinate dalla grandeur e dalla potenza della sua lobby. Ben diverso il ruolo dell’Italia. Trattata con spocchia come il Calimero del club, a dispetto del fatto che da contributore netto abbia versato 50 miliardi di euro per banche e Stati stranieri, poco gli è valso anche aver salvato dal 2015 un migrante su due nel Mediterraneo. Resta molto in debito sui ricollocamenti con tanti altri paesi come la Germania (35% dei ricollocamenti effettuati soltanto), la Francia (24%), e la Spagna (14%). Dopo anni di manovre per almeno 200 miliardi, in dieci anni i poveri sono raddoppiati, i ricchi milionari sono cresciuti quasi del 10% negli ultimi dodici mesi, il debito pubblico è aumentato del 30% da quando fallì Lehman Brothers, il Pil è ancora in territorio negativo rispetto al 2007, unica eccezione con Atene di tutto il continente. Non è quindi un caso se il 70% degli italiani si dica stufo di questa Europa, nutrendo per di più una certa insana nostalgia per la lira. Dipingere la penisola come un paese di privilegiati è però la grande fake news del millennio. In molti si sentono privati di una passata autonomia.

 

In Italia l’Unione Monetaria è stata accompagnata negli ultimi anni da un sentimento strano di nostalgia. Tra il 1954 e il 1994 il rapporto debito-Pil è salito dal 20 al 120%, solo la legge sui baby pensionati è costata alle casse pubbliche 150 miliardi di euro di debito in più. Svalutazioni e crisi petrolifere hanno costretto il paese persino a chiedere negli anni settanta alla Germania un prestito, garantito dall’oro della Banca d’Italia, che oggi siscopre essere praticamente della Bce. Giorgio Ambrosoli, esemplare servitore dello Stato, fu ucciso perché curatore fallimentare della banca del presunto salvatore della lira, Michele Sindona. Anni di piombo, insomma, anche per la finanza. Di converso, bisogna ammettere che un problema c’è e si potrebbe sintetizzare con il fatto che l’Italia emette debito in una moneta che non controlla più, ma che certo non può coniare di nuovo. Senza voler riaprire vecchie ferite come ad esempio il tasso di cambio svantaggioso (1.936,27 lire per un euro, prontamente portato in alcuni casi a 2.000 lire) e frutto di un regime fisso legato agli ultimi anni di Ecu, che premiava il marco, qualche calcolo di quelli che si fanno al mercato e non nelle accademie si può fare. Una ricognizione su cento prodotti e servizi, fotografati nel 2001 e rivalutati al 2016, mostrano un andamento dei prezzi a due facce. Se alcuni beni, dal compact disc al burro hanno fatto registrare sensibili riduzioni anche del 25%, altri generi di largo consumo, tolta l’inflazione, sono diventati molto più cari. Una pizza margherita è aumentata del 98%, un chilo di pasta integrale è salito del 79%, un chilo di fettine di vitello del 69%. Persino il tramezzino, lo spuntino per eccellenza, costava solo 1.500 lire ed oggi lo si trova in media a 2,10 euro. Il doppio. Non si vivrà di solo pane, ma milioni di italiani quello si possono permettere. Se rimpiangono la lira è perché per mancati controlli nel periodo di doppia circolazione, arrotondamenti preventivi, assenza di sostegni alla perdita di potere d’acquisto, con l’euro si sono davvero impoveriti.

Questo non significa che sia tutto da rifare. Chi volesse tornare indietro dovrebbe fare i conti con questi numeri. Dal ‘79 al ‘92 ci sono state sette svalutazioni sul marco, la lira perse metà del suo valore ma al contempo, sono cifre della Bce, la produttività non ha guadagnato restando inferiore ai partner Ue, il Pil non fu migliore degli altri, la disoccupazione è aumentata dell’1,3% ma soprattutto l’inflazione cumulata fu il doppio rispetto ai partner europei. 

In conclusione, come ha ricordato il presidente della Bce, la moneta unica ha consentito a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria rispetto al regime di parità fisse vigenti nello SME. Le decisioni rilevanti di politica monetaria erano allora prese in Germania, oggi sono condivise da tutti i paesi partecipanti, anche se in molti sostengono sia cambiato poco. La dimensione dei mercati finanziari dell’euro ha inoltre reso l’area della moneta unica meno esposta agli strattoni della politica economica americana, nonostante l’accresciuta integrazione finanziaria globale e il commercio dell’area rispetto al resto del mondo è quasi raddoppiato. Sbagliato sarebbe poi farsi tentare dalle sirene sovraniste. Fra i presunti vantaggi della sovranità monetaria ci sarebbe quello di poter finanziare con la moneta la spesa pubblica, una possibilità che non è in apparenza particolarmente apprezzata dai paesi che fanno parte del mercato unico ma non dell’euro. La media ponderata del debito pubblico di questi stati è infatti pari al 68% del PIL contro un rapporto dell’89% per quelli a moneta comune.

In conclusione, il bilancio di vent’anni di Unione Monetaria non può che essere a due facce: ottimo per le merci, molto meno buono per le persone.