Poche volte come questa, il risultato elettorale può prestarsi alla formula apparentemente un po’ demagogica e retrò di “terremoto politico”. È stato un terremoto di cui forse non afferriamo del tutto la profondità, che può essere colta soltanto se si chiamano in causa variabili diverse da quelle che i giornali hanno utilizzato nella fase di post voto. Occorre un vero sforzo di comprensione di quello che è successo nel Paese, ma con la consapevolezza che non c’è ancora una giusta distanza dalla fine della campagna elettorale per poter analizzare compiutamente e serenamente i risultati.

Questo non toglie però che dobbiamo cominciare a cogliere cosa è successo in questa campagna elettorale, di radicalmente nuovo per la stessa capacità di previsione sociale degli studiosi che è stata quantomeno deludente, soprattutto per la difficoltà di collegare i risultati elettorali ai cambiamenti in atto nei processi sociali e comunicativi.

C’erano tutte le possibilità, per capire ciò che stava succedendo, ma ci siamo frenati pensando che, come altre volte, questi cambiamenti avrebbero fatto i conti con un elemento di tradizione e di conformismo politico-elettorale che si è dissolto all’improvviso. Anche se, in alcuni casi, la dissoluzione non è quella che dipingono i media: lo dimostra il fatto che alcuni partiti politici che non hanno fatto una campagna performativamente ispirata alla comunicazione, abbiano raccolto percentuali comunque significative in tempi di così forte e compulsivo impulso al cambiamento. Diciamo la verità: è un piccolo miracolo che siano riconoscibili, nei risultati elettorali, significativi serbatoi elettorali non populisti, che sono la prova che la comunicazione da sola non stravince, e che si possono addirittura ipotizzare comportamenti di scelta polemici nei confronti della sincopata e nevrotica narrazione televisiva e mediale della politica.

Gli aspetti di novità di questa campagna possono essere sintetizzati in cinque punti. Si tratta di ovviamente di items che volgono la loro attenzione verso le forze che più hanno vinto la kermesse; è vero che un sociologo deve studiare gli indizi minoritari e i segni del futuro, ma prima ancora deve altrettanto rispettare le percentuali forti.

 

  1. Il voto giovanile

 

Anzitutto una premessa metodologica: il confronto tra il 2013 e oggi è poco plausibile perché in quell’occasione si votò anche lunedì, aumentando così fisiologicamente la platea degli elettori. Scorrendo però il voto giovanile in tutti gli appuntamenti di quell’anno e successivi, ivi incluso il referendum costituzionale, il trend che si delineava era quello di un’ulteriore forma di presa di distanza dalla politica che non di rado si esprime con il non-voto o l’astensione. Stavolta, invece, è stata chiaramente scelta l’alternativa di un voto altamente dichiarativo, che ha privilegiato i soggetti più nuovi e più performativi anche in termini di una campagna elettorale dai toni forti. Se a questo si aggiunge l’impatto progressivo che gioca sulla corte degli elettori la proiezione sulla fascia 18/24 la riduzione della natalità, senza considerare le previsioni dei sondaggi, è difficile non registrare un dato positivo di attenzione nei confronti dell’offerta politica, vecchia o nuova che sia.

Si tratta in larga misura di una novità straordinaria: significa che ai giovani sono state offerte piattaforme politiche che hanno finalmente giudicato plausibili e convincenti in termini di protesta e proposta. Significa dunque che altri non hanno saputo mettere in campo una proposta altrettanto convincente.

Negli ultimi turni elettorali l’apatia giovanile era comunque un indizio peggiore rispetto a scelte individualmente discutibili: è una forma di rassegnazione, mentre il ritorno al voto è un elemento di speranza.

Sembra quasi un miracolo che giovani così digitalizzati, quasi reclusi nella bolla tecnologica degli schermi, questa volta abbiano scelto concretamente di votare. Ogni giovane che lo ha fatto è comunque un sintomo di speranza.

  1. La questione dell’astensionismo

Vale anche qui, in qualche misura, il ragionamento anticipato sul voto giovanile. In netto contrasto con il clima gridato della campagna, in cui un item sbadatamente traconiano preludeva all’ampliamento dell’astensionismo, il crollo dell’affluenza non c’è stato. E’ interessante sul punto andare a controllare gli ultimi sondaggi e le previsioni degli editorialisti di casa nostra. Non si dimentichi, per capire il valore dei numeri, che l’astensionismo anche in un Paese fortemente radicato sulla partecipazione come l’Italia, subisce un fisiologico aumento ad ogni turno elettorale, anche per l’aumento progressivo dell’indecisione.

Ebbene, dai dati dell’affluenza si registra una diminuzione nell’ordine del 2% rispetto alle elezioni politiche del 2013. Tuttavia dai sondaggi la percentuale di coloro i quali non avrebbero deciso di recersi alle urne era pari al 30-35%. Dunque una dimostrazione del cambio di rotta, improvviso, durante il giorno delle elezioni.

 

  1. Bacini elettorali senza confini. Quasi scambisti

C’è un elemento nuovo almeno per le sue dimensioni: l’assoluta fragilità e permeabilità dei bacini elettorali dei partiti. In tutte le società moderne, si registra ovviamente una tendenza all’infedeltà e a voti di prova tra forze contigue. Ma il modo in cui questi confini sembrano ormai non tenere più, e la serialità delle scelte trasgressive richiamano alla memoria un importante lascito teorico dei media studies “gli uomini cambiano insieme”. E comunque lo fanno più volentieri se sono confortati dall’orientamento del proprio gruppo primario. Si tratta forse della più grande scoperta degli studiosi di comunicazione, accanto alla teoria dell’esposizione selettiva. Ma l’aspetto più interessante è che gli scambi di voto non sono più necessariamente, e neppure prevalentemente, tra forze politiche che abbiano affinità. Contraddicendo i celebri studi sulla necessità di individuare una qualche mediazione nel processo di spostamento elettorale, gli elettori passano più che volentieri a voti per formazioni opposte tra di loro, acutizzando dunque il valore segnaletico della scelta.

  1. Una partecipazione polarizzata dal profondo Nord al Sud

Stavolta l’item deve chiamare in causa i due vincitori della contesa elettorale la Lega, e soprattutto 5 Stelle, hanno restituito un impulso molto importante alla cultura della partecipazione. È evidente che il rancore per una crisi economica percepita come ancora forte, che significa in altre parole una crisi sociale e di fiducia, ha alimentato un ritorno di fiamma per le proposte più gridate e dal sapore volutamente estremista.

Ma quando cambia così profondamente la cartina politico-elettorale del paese, come ci ha mostrato ancora in questi giorni Ilvo Diamanti su Repubblica, significa che i cambiamenti sono profondi, e al tempo stesso che le parole chiave sono state in grado di tematizzare un interessante ritorno di attenzione per la partecipazione politica. È successo al nord e al sud, e dunque è trend nazionale.

 

  1. Rapporto inedito tra capitali e periferie

Più che in altre occasioni, le metropoli (sostanzialmente tutte, a partire da Roma e Milano) hanno presentato comportamenti di scelta più consolidati, e dunque meno innovativi, mostrando trend di scelta delle offerte nuove, tutt’altro che invincibili. È l’esatto contrario di quanto avvenuto nelle periferie di quelle stesse città e, più in generale, nelle periferie sociali, per usare una definizione di Papa Francesco.

 

 

L’autore è commissario AGCOM e Consigliere alla Comunicazione alla Sapienza Università di Roma.

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