In America direbbero “all over again”. Il dibattito sulla scuola è fermo, fatta eccezione per pochi minimi scossoni, a un anno fa. Con un nuovo, complesso settembre alle porte sembra non potercisi occupare d’altro che della profilassi da adottare per evitare di tornare, di nuovo, tutti davanti a uno schermo per una lezione a distanza. Il ministro Bianchi si trova davanti a una sfida più che straordinaria, se vuole mantenere alta la reputazione del governo di cui fa parte.

Il piano scuola non ha apportato molte modifiche a una situazione che già oggi sembra cristallizzata. C’è l’obbligo di mascherina. Ci sono forti raccomandazioni, ma ovviamente nessun obbligo, di vaccinazione per personale scolastico e docenti. Non c’è green pass per i mezzi di trasporto, e in generale c’è poco sui trasporti con cui studentesse e studenti raggiungono la scuola. E poi, pochissime altre misure che di fatto non variano di molto la situazione al rientro. Ancora oggi non ci sono dati certi sui contagi nel contesto scolastico nell’anno passato, ma è certo che con una popolazione scolastica ampiamente vaccinata un ritorno massiccio alla didattica a distanza sarebbe più che scongiurabile.

Un importante passo avanti, d’altra parte, potrebbe essere fatto dal Ministero nel caso in cui si concretizzasse la possibilità di assumere decine di migliaia di insegnanti a tempo determinato per evitare la didattica a distanza in quei contesti dove la didattica, appunto, ha risentito di più della modalità “remota”. Una possibilità che, stando alle parole del ministro Bianchi, sembra più che concreta.

Il mezzo di misurazione Invalsi, però, quest’anno probabilmente è stato letto con le lenti sbagliate. Si sono sprecati i commenti sulle scarse conoscenze maturate da maturande e maturandi. Se tuttavia da una parte la maledetta didattica digitale integrata e l’incapacità di ritornare in presenza sono capri espiatori più che facili da mettere a fuoco, dall’altra a gran parte dell’opinione pubblica manca il coraggio di dire che questi peggioramenti sono aggravanti per una crisi strutturale. Che si vede sin dalla scuola primaria: banalmente, la necessità di assumere più docenti e di provvedimenti di “edilizia leggera” (modificando la struttura interna alle scuole per creare più aule) scaturisce dalla volontà di creare una controtendenza rispetto alle notissime “classi pollaio”. Gruppi di quasi trenta alunne e alunni sono la norma in determinati contesti, e dalla Legge Gelmini in poi sono legali. Il limite per la scuola dell’infanzia è 29 bambini; scende a 27 quello per le scuole primarie; il massimo di ragazze e ragazzi in una classe delle medie è di 28; addirittura 30 sono gli studenti ammessi in una classe di scuola secondaria di secondo grado, istruzione superiore. Oggi il totale delle classi in Italia che sforano questi limiti è appena lo 0,5%; se tuttavia il limite fosse abbassato anche solo a 25 studentesse e studenti per classe, un numero comunque consistente, le classi sopra al limite consentito sarebbero l’8,6%.

Neanche a dirlo, la crisi della scuola picchia molto più duramente nel Mezzogiorno. Si vede facilmente dai risultati dei sopra citati Invalsi, che testimonia quanto «i risultati di italiano per livelli di competenza» siano straordinariamente più bassi nelle regioni meridionali che in quelle settentrionali. L’abbandono degli studi tra i 18 e i 24 anni, secondo quanto riportato dai dati ISTAT, segue lo stesso trend. Lombardia e Piemonte vedono una percentuale di abbandono intorno al 12%, ma in Puglia la percentuale sale al 15,6%, in Calabria al 16,6%, in Campania al 17,8% e in Sicilia addirittura al 19,4%. Non è un caso, dunque, se i NEET (ragazze e ragazzi che non studiano né lavorano) tra i 15 e i 24 anni quasi raddoppiano da Lombardia a Campania. Nel Mezzogiorno, si va dal 21% della Basilicata al 29,3% della Sicilia.

Le conseguenze di questa crisi e del divario tra regioni che ne soffrono di più è evidente anche quando si arriva ad analizzare la fine dell’intero percorso di studi: lo stipendio medio di un neolaureato che trovi lavoro nel sud del Paese è pressappoco la metà di quello che otterrebbe, in media, lavorando all’estero.

Il dibattito sulla scuola, dunque, è fermo almeno da un anno e mezzo, ed è un cane che si morde la coda. La sfida che attende i ministeri, inspiegabilmente separati, di istruzione scolastica e istruzione e ricerca universitaria è difficilissima. Soprattutto, la situazione paradossalmente potrebbe peggiorare una volta usciti dall’incubo pandemico. A chi si darà la colpa delle lacune sempre più ampie, quando non ci sarà più il Covid-19?