Il valore della letteratura a scuola come occasione irrinunciabile di conoscenza, di esplorazione, di confronto. Lo afferma Anna Angelucci, docente e consigliere dell’Associazione La Nuova Europa, in questa intervista di Eleonora Fortunato pubblicata su orizzontescuola.it

 

“Non so se sia mai stato teorizzato dagli psicoanalisti, ma inizia a venirmi una specie di complesso di Cassandra”. Quando incontro Anna Angelucci fuori dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma è un lunedì mattina molto caldo, perciò ci rifugiamo subito in un bar per riprendere un certo discorso iniziato al telefono la settimana prima. Con l’accenno a Cassandra lei allude a un articolo che sul Corriere della sera racconta il dietrofront delle politiche educative statunitensi in fatto di competenze e test standardizzati, argomento su cui cinque anni fa, in occasione di un convegno, aveva fatto uno studio approfondito, anticipando gran parte di quelle riflessioni: “I colleghi che mi consideravano esageratamente critica, quelli che dicevano ‘aspettiamo, che forse poi la riforma non è così male’, ora quando li incontro mi dicono che forse avevo ragione, che ci avevo visto lungo”.

Docente da trent’anni di italiano e latino, ora al Liceo “Louis Pasteur” di Roma, Angelucci è un nome noto nella stampa specializzata (va bene, diciamolo, di una certa stampa specializzata: firma articoli su Roars, Micromega, La letteraturaenoi, il Manifesto) per il suo impegno militante a favore della scuola pubblica (è anche presidente dell’associazione nazionale ‘Per la scuola della Repubblica’). Una passione culturale e civile che la porta a studiare e a spulciare a fondo documenti, libri, articoli, sondaggi con un’idea di fondo: il modello trasmissivo  critico-analitico caratteristico della scuola italiana non doveva essere attaccato così frontalmente e strumentalmente per scimmiottare modelli stranieri che non solo non ci appartengono geneticamente, ma che per di più stanno rivelando molte debolezze.

Anna, partiamo dai professori vilipesi e maltrattati di questi giorni e dimmi la tua sul perché questi episodi si verificano proprio ora che è iniziato il processo di cambiamento della scuola invocato da tanto tempo, ora che si presta tanta attenzione alla formazione pedagogica di chi sale in cattedra, sembra un controsenso (vogliamo negare che da almeno due o tre lustri i corsi di aggiornamento per i docenti, con la complicità di sindacati e associazioni, sono monopolizzati da sedicenti professionisti dell’educazione – spesso al soldo di case editrici o di multinazionali – i quali non ripetono che banalità su come tenere alta la motivazione dei ragazzi, come creare il ‘setting’ giusto, come dismettere i panni polverosi dell’insegnante per indossare quelli ammiccanti del facilitatore?).

“Il mio pensiero è molto semplice, te l’avevo anticipato al telefono e te lo ribadisco: i pedagogisti hanno colto il momento storico adatto per riscattare la marginalità di tanti studi squisitamente teorici che avrebbero fatto di gran lunga meglio a rimanere tali, senza pretendere di diventare viatici per il nuovo corso della scuola. Il mio non è un attacco alla disciplina tout court, so bene che diversi pedagogisti militanti hanno conseguito tanti importanti risultati nel mondo e nel tempo (mi vengono in mente, per esempio, gli studi di Alain Goussot sulla pedagogia speciale per il ritorno a una visione solidale, inclusiva e democratica della scuola), ma mi riferisco agli studiosi rinchiusi nelle loro torrette d’avorio, che hanno cavalcato il desiderio di cambiamento che la società ha sempre avvertito nei confronti della scuola. Molti, per esempio, hanno avuto il loro momento di celebrità puntando sulle nuove tecnologie, hanno scritto libri, hanno guadagnato denaro, sono diventati consulenti del Ministero. Le poche voci fuori dal coro, che avrebbero voluto avviare un dibattito, sono state da subito tacciate di disfattismo, di conservatorismo, sono state isolate. Proprio relativamente a quest’ultimo punto, voglio farti vedere un libro che sto leggendo, “Cambiamento mentale” della neuroscenziata inglese Susan Greenfield, che parte dall’assunto biologico secondo cui il cervello è un organo plastico che si modifica nell’ambiente in cui viviamo, secondo il principio dell’adattamento. I nuovi media, a differenza di quanto è accaduto in passato, non si limitano a creare nuove forme di comunicazione, ma creano veri e propri ambienti virtuali paralleli a quelli reali, e questa è una novità epocale, non priva di conseguenze. Noi adesso abbiamo sufficienti conoscenze scientifiche che ci consentono di fare delle previsioni rispetto a questo scenario sociale così regressivo e dovremmo, perciò, essere cauti e vigili, invece abbiamo permesso alle nuove tecnologie di spadroneggiare in tutti gli ambiti del nostro tempo libero e di entrare persino a scuola dall’ingresso principale. Gli episodi a cui tu alludi sono, a mio avviso, sintomi di un mutamento antropologico, alimentato anche da certe politiche di corto respiro, che noi ormai possiamo immaginare concretamente, prevedere con buona probabilità di riscontro. Tuttavia sembra che chi si occupa di educazione non abbia alcuna intenzione di assumere questo come un problema”.

Più che altro non tutti, tra quanti si occupano di educazione, ritengono che il mutamento di cui tu parli sia un problema e che l’orizzonte che esso prefigura sia ‘regressivo’ (forse potremmo suggerire loro di andarsi a vedere l’ultimo film di Steven Spielberg, Ready One Player, ma non so se basterebbe).

Anna, io condivido parola per parola tutto quello che dici, ma non voglio farti un’intervista facile. Voglio porti le stesse domande che assillano me. Cominciamo: sono decenni che gli italiani si dicono insoddisfatti della loro scuola. Il modello tradizionale che tu un po’ rimpiangi, solidamente basato sui contenuti, quello della ‘trasmissione del sapere’ per intenderci, fa riaffiorare subito un po’ in tutti ricordi angoscianti legati alle valutazioni, alla noia, alle umiliazioni. Solo qualcuno, ma veramente giusto qualcuno, ogni tanto ti dice che ha avuto la fortuna di incontrare quell’unico insegnante che gli ha cambiato la vita. Ora la mia domanda è: come trovare migliaia e migliaia di intellettuali gramsciani così visceralmente innamorati dell’umanità da sentirsi pronti ad accendere nelle nuove generazioni l’amore verso il sapere, verso i valori della democrazia? E se anche riuscissimo a trovarli, come potremmo mai attirarli nel campo dell’istruzione? Sottraendoli forse alle professioni? Inaugurando un sistema di alternanza scuola-lavoro per i docenti? È fantascienza, comprensibile, perciò, provare a riprogrammare le regole del gioco e le teste dei giocatori (se non sbaglio, era più o meno questo il succo del rapporto Deloitte commissionato dal Miur).

“Per risponderti credo che bisognerebbe partire col chiedersi che cosa è successo nella scuola in questi ultimi venti anni. La mia risposta è che la scuola non ha saputo essere un antidoto al degrado culturale e morale che ha investito la nostra società perché totalmente in balia di una visione pedagogica e politica che vedeva in Don Milani e nella scuola di Barbiana il suo principale riferimento pratico e teorico. Potendo scegliere tra Gramsci e Don Milani si è scelto quest’ultimo, modello incarnato di quella concezione  ‘cattocomunista’ tipicamente italiana che ha animato molte delle riforme scolastiche degli ultimi vent’anni. A questo aggiungiamo i tagli insopportabili (miliardi e miliardi di euro) fatti dall’ultimo governo di centrodestra e le aberrazioni della 107, come ad esempio l’alternanza scuola-lavoro, e il quadro del disastro-scuola è completo”.

Se parli così sembri vagheggiare un modello di scuola elitario, presessantottino.

“Non potrei mai avere una visione classista dell’istruzione, la mia stessa storia personale lo testimonia: sono figlia di un venditore di bombole del gas e di una casalinga, gli unici libri che circolavano in casa nostra erano i gialli e il giornale si comprava solo la domenica. Però avere potuto contare fin dalle elementari su una scuola pubblica di alto livello, con insegnanti che molto pretendevano e molto pure davano ai loro studenti, mi ha completamente risarcita dell’iniziale svantaggio determinato dalla mia condizione di nascita, in un quadro sociale e politico in cui la scuola e il libro avevano ancora valore come luogo e strumento deputati alla trasmissione della cultura. Un valore tale da indurre il desiderio di partecipazione anche da parte dei genitori e delle famiglie, come dimostrano le battaglie per gli organi collegiali dei primi anni Settanta. L’errore di Don Milani, e soprattutto dei suoi epigoni, è stato quello di trasformare un’esperienza personale molto marcata dal punto di vista economico, culturale e geografico in un modello pedagogico e didattico generalizzato, in cui per mettere i ‘figli del popolo’ in grado di leggere un contratto di lavoro si è erroneamente rinunciato alla ricchezza e alla complessità della nostra tradizione culturale, partendo dal presupposto che i figli del popolo non fossero in grado di comprenderla e di padroneggiarla”.

Quello che rimproveri a Don Milani io lo potrei rimproverare a te, anche tu mi sembri tentata di fare della tua esperienza personale un modello universale. Potrei ribattere  che in quel tipo di scuola ce l’hanno fatta le persone dotate di particolare intelligenza e determinazione, qualità che non appartengono alla moltitudine. Forse, poi, chi crede di emanciparsi grazie a buoni docenti si emanciperebbe comunque.

“Senza cultura, nessuna emancipazione è possibile. In quegli anni era certamente necessaria un’apertura a un mondo altro, ed era necessario un atto di rottura nei confronti della scuola classista presessantottina. Ma si è cercato di contrapporre un’altra cultura alla cultura dominante. Volevamo leggere di più, leggere altri autori, conoscere altre letterature e altri mondi. Invece, forse per eterogenesi dei fini, la linea che ha dominato le politiche scolastiche nei decenni successivi, incarnata in primis nelle figure di Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, esasperando la posizione di Don Milani, ha marginalizzato la letteratura in nome della varietà dei registri linguistici, immaginando l’acquisizione e l’apprendimento della lingua come indipendente dai contenuti, anche se poi, negli ultimi anni, De Mauro ha pubblicamente riabilitato il valore e la funzione della letteratura nell’educazione linguistica.

Voglio dire, insomma, che il messaggio di Don Milani, pur partendo da specifiche premesse, ha informato le politiche scolastiche dominanti nell’ottica della semplificazione e del riduzionismo, cosa che ha poi comportato tutta una serie di interventi di riforma al ribasso, sia del curriculum, sia dei vari sillabi delle discipline. L’esito nefasto di questo approccio è stato il fatto che invece di dare e chiedere di più a Gianni (il figlio del popolo) per metterlo in condizione, come avrebbe voluto Gramsci, di parlare la lingua del padrone e di padroneggiare la cultura del padrone, e dunque ‘di farsi dirigente’, si è tolta cultura sia a Gianni sia a Pierino (il figlio del dottore). L’idea fallace è stata quella di sostituire l’obiettivo sacrosanto dell’accesso formativo ai più alti livelli culturali con quello mistificatorio del successo formativo, che ha inevitabilmente comportando l’abbassamento che oggi è drammaticamente sotto i nostri occhi”.

Visto che tutte e due citiamo Gramsci, sai che un nuovo libro, “Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere” (L’asino d’oro, 2018), si focalizza proprio sul contributo che le sue idee potrebbero dare ancora oggi al cambiamento della scuola? Lo hanno scritto Giuseppe Benedetti, un insegnante, e Donatella Coccoli, una giornalista. Non l’ho ancora finito, ma mi è rimasta impressa un’osservazione che Marco Revelli fa nella premessa: dice che la scuola oggi è ‘baricentro della regressione’. È allarmante dirlo con queste parole, la scuola non solo non ha anticorpi contro il degrado, ma in qualche modo lo accelera.

“Io penso che il ragionamento che noi stiamo facendo a proposito della scuola vada collocato in un ambito sociale più ampio, come ora capiscono in tanti. Mai come in questo momento è necessario che la scuola recuperi la sua funzione di contrasto all’inciviltà e alla barbarie, divenendo l’epicentro di un cambiamento radicale. Cominciamo con l’abolire l’alternanza scuola-lavoro (con il suo mostruoso monte ore obbligatorio che toglie spazio e tempo allo studio, alla lettura e alla riflessione critica), quella sì fonte di regressione: gli studenti dei tecnici e dei professionali a lavorare gratis nei fast food, quelli dei licei del centro a passeggio nei musei e nelle istituzioni culturali. Restituiamo più scuola e più cultura per tutti, più libri, più discussioni critiche, più confronto, più relazioni in corpore vili, per rilanciare l’impegno etico e politico che da sempre alimenta la fiamma del sapere, rendendolo vivo. I pedagogisti propongono di sostituire le tradizionali prove di verifica con dei fantomatici ‘compiti autentici’: io dico, che cosa c’è di più autentico di una riflessione in un tema o in un dibattito sull’immigrazione dopo aver letto, che so, “Nel mare ci sono i coccodrilli” di Fabio Geda o “Vita” di Melania Mazzucco?”.

Ho capito che ti sta molto a cuore la letteratura e di sicuro non ti è sfuggito che ultimamente nessuno mai si sogni di annoverarla come strumento centrale dell’educazione linguistica. Anzi, si sente parlare di twitteratura, di assurdi concorsi in cui i ragazzi devono sceneggiare improbabili spot, scrivere slogan. So che tu hai una proposta concreta e interessante su questo punto, ce ne vuoi parlare?

“Non so chi possa immaginare che ridurre un romanzo ai 140 caratteri di un tweet sia un buon esercizio da proporre a studenti in formazione. Questa ossessione riduzionistica, del tempo e della complessità che si accompagna a ogni autentica esperienza culturale, ha, ai miei occhi, un che di patologico. Occorre rovesciare questo paradigma e c’è una cosa che il Ministro può fare subito, a costo zero, proprio insieme alla sua commissione per il rilancio dell’apprendimento dell’italiano guidata da Luca Serianni: immaginare e proporre un sillabo di italiano per il biennio della scuola superiore uguale per tutti, in cui non ci sia distinzione tra i programmi per gli studenti liceali e quelli per gli studenti dei tecnici e dei professionali, attualmente destinatari di poche righe delle ultime linee guida. Ma che sia ricco per tutti e non povero per tutti! Rilanciare l’educazione letteraria anche e non solo come strumento fondamentale della pedagogia linguistica, ma come veicolo di valori emancipanti sul piano psicologico e politico, individuale e collettivo, ecco un atto che andrebbe realmente incontro alle istanze espresse negli anni Settanta dalle ‘10 tesi per l’educazione linguistica democratica’. Ritornare a immaginare la classe – come suggerisce instancabilmente Romano Luperini – come una ‘comunità ermeneutica’ che legge, pensa, interpreta e si interroga sui destini dell’uomo e del mondo. Portare via gli studenti dagli smartphone, dagli iPad, dai videogiochi, dove si consuma in silenzio, e con la complicità di noi adulti, la tragedia della loro solitudine, del loro abbandono a se stessi senza più ancore di salvezza. Recuperare l’idea, il valore della letteratura a scuola come ancora di salvezza, come occasione irrinunciabile di conoscenza, di esplorazione, di confronto”.

Per operare la svolta di cui tu parli servono anche i libri di testo giusti.

“È vero, servono anche libri. Guardo l’antologia del 1969 di Franco Fortini per il biennio di scuole di ogni ordine e grado intitolata Gli argomenti umani e la confronto con le antologie in circolazione negli ultimi venti anni: lì mille pagine di testi fondativi di autori italiani e stranieri, prevalentemente testi letterari, ma anche filosofici, scientifici, storici, politici; una letteratura intesa nella sua accezione più ampia e completa, senza pletorici apparati di test a risposta chiusa, senza crocette o riquadri da spuntare. Poi osservo le antologie in circolazione oggi. Titoli new-age, ammiccamenti al lettore-studente eternamente imprigionato in una visione infantilistica; scelte testuali quanto meno discutibili basate sul principio della brevità e della semplicità del testo da analizzare ‘alla griglia’, come sottolineò ironicamente già 40 anni fa la compianta Maria Luisa Altieri Biagi, oppure del potenziale divertissement che certi testi piuttosto che altri saranno in grado di suscitare nel giovane studente – lui deve essere piacevolmente intrattenuto, secondo il principio dell’artintainment, perché il criterio pedagogico del ‘lasciateli divertire’ è stato ormai assunto e introiettato a tutti i livelli.

Tornare alla letteratura, nel senso ampio e completo di Fortini, significa anche immaginare un’educazione linguistica totalmente diversa da quella che si svolge attualmente a scuola: per gli studenti arrivati al biennio delle scuole superiori, la riflessione sulla lingua dovrebbe essere esclusivamente metalinguistica, partire dal testo e tornare al testo attraverso la produzione scritta e orale. Andrebbero abolite le ore e i libri di grammatica, stanco retaggio di una didattica normativa che davvero diventa inutilmente oppressiva. Quando fai il sonetto di Cecco Angiolieri  Se fossi foco…  rifletti anche sul periodo ipotetico, invece di elencare improbabili classificazioni con esempi irreali. Se leggi Hemingway, la riflessione sul discorso diretto e sulla paratassi viene da sé, e scorrendo le pagine dei romanzi di Marguerite Yourcenar hai decine di meravigliose parole nuove da imparare e riutilizzare…”.

Anna, scusa se insisto, ma la centralità che tu assegni alla letteratura è veramente fuori moda. I critici ci hanno messo del loro, predicando l’idea che in fondo tutto è letteratura, anche un testo pubblicitario, anche un contratto di lavoro, semplicemente perché possiamo analizzarli con gli stessi strumenti.

“Formalismo e semiotica, nelle loro applicazioni più estreme, hanno prodotto a scuola significativi fraintendimenti. Pagine di grandi autori vivisezionate come cadaveri accanto a foglietti illustrativi dei farmaci considerati alla stessa stregua. I testi utilizzati sempre e solo come strumento di analisi dei testi! Ancora una volta, la responsabilità è di scelte culturali e politiche sbagliate, fondate sul principio dell’uso strumentale, meramente operativo e utilitaristico della cultura. Sembra che in Italia nessuno abbia letto Tzvetan Todorov e il suo “La letteratura in pericolo”, in cui lo studioso, compiendo un atto di rara autocritica, ci invita a far uscire la letteratura da questo vicolo cieco. Ricordo, inoltre, che la necessità della letteratura è oggi attestata anche dalle neuroscienze, che sottolineano la dimensione biologica, accanto a quella psicologica, del costruire, del narrare e del leggere storie. Il racconto, nella sua valenza simbolica, è tratto specie-specifico dell’homo sapiens: togliere la letteratura agli adolescenti è come togliere le fiabe ai bambini! Il pensiero, ci ha insegnato Jerome Bruner, è narrativo. Insomma, compito di noi insegnanti è togliere gli adolescenti dai social e riportarli nel mondo della rappresentazione e della narrazione, realistica o immaginaria, della realtà, e sappiamo che la letteratura attiva processi di ‘mentalizzazione’, ovvero la capacità di comprendere le emozioni e le azioni degli altri. La lettura di un romanzo come “Nel mare ci sono i coccodrilli”, ribadisco, è psicologicamente, e quindi culturalmente e politicamente, più efficace di qualsiasi lezione teorica o informazione sul fenomeno dell’immigrazione. Gli scrittori lo sanno da tempo immemore”.

Mi pare quasi che tu voglia lanciare una sfida a Serianni e al suo gruppo.

“È proprio così, temo che limitarsi a modificare ‘a valle’ le prove d’esame senza riflettere ‘a monte’ sul curricolo e sui suoi contenuti, rischi di essere solo un’inutile operazione formale. Sarebbe gravissimo lavorare solo sulle prove di verifica senza cogliere l’occasione preziosa di una riflessione profonda sulle criticità dell’attuale formulazione del curricolo di italiano nel biennio, sulla sua eccessiva frammentazione, sull’inefficacia generalizzata dei suoi esiti formativi, tanto più grave se pensiamo che si tratta davvero della disciplina più trasversale e, dunque, più importante della scuola dell’obbligo”.

Per concludere, tu parli di strappare i ragazzi ai social e al mondo virtuale, ma sai benissimo che buona parte della ricerca didattica si sta orientando massicciamente verso l’ e-learning. Sono già diverse le università tradizionali – non telematiche – che obbligano i loro studenti a seguire interi corsi su piattaforme virtuali (i cosiddetti MOOC), credi che ci si metterà molto ad estenderle anche ai segmenti inferiori dell’istruzione? Sono troppo pessimista se penso che i docenti in carne e ossa, magari in piccoli gruppi-classe da 12 persone, come suggerisce Galimberti, alla fine potranno permetterseli solo determinate fasce della popolazione?

“Il rischio c’è ed è grandissimo: se il Parlamento e il prossimo Governo non si assumono il compito di ripensare seriamente l’istruzione in Italia insieme a noi insegnanti, abbandonando una volta per tutti i criteri economicistici che hanno ispirato gli ultimi interventi sulla scuola e tracciando coordinate profondamente diverse da quelle su cui da troppo tempo ci stiamo muovendo, rischiamo di trovarci tra breve con una scuola pubblica statale ridotta a parcheggio per le fasce sociali più basse della popolazione e una scuola privata d’élite che offrirà a caro prezzo una formazione completa. Un tradimento del mandato costituzionale assegnato alla scuola pubblica – che non era certo quella privata, cosiddetta paritaria, erroneamente finanziata da Luigi Berlinguer – di cui saremo tutti dolosamente responsabili”.

 

 

 

 

 

Queste riflessioni sono dedicate alla nostra amica Anna Millan Gasca, che condivide con noi  pensieri, preoccupazioni e speranze sulla scuola. E alla memoria di sua sorella Virginia, chimica e scienziata del mondo industriale prematuramente mancata all’affetto dei suoi cari.