La Germania, la Grande Germania, è l’incubo di chiunque non sia tedesco. Ammetterlo sarebbe già uscire dallo studio di Freud con la rielaborazione del grande lutto del Novecento. Dovrebbero provarci per primi gli italiani, che voteranno avendo saputo l’esito delle elezioni lassù. Ben prima dello stadio Azteca, entrambi i popoli si amano e si odiano insieme. Nel paese più amato da Goethe, da sempre amico e antagonista, traditore e invidiato in ogni lander, sbeffeggiato e studiato nel segreto delle università, il lunedì si attacca Berlino per il suo surplus commerciale, il martedì gli si rinfaccia l’austerità imposta a tutta Europa, il mercoledì gli si addebitano le colpe e i ritardi nazionali, il giovedì gli si ricorda Auschwitz, il venerdì si chiede di fare di più per l’Unione. Se si leggesse qualche buon libro nel week end, forse si potrebbe arrivare a capire questi 80 milioni di testardi lavoratori. Che continuano a considerare il debito una colpa, il risparmio la via per la salvezza, la Ferrari un gioiello che non riusciranno mai a costruire. Forse comprare, ma possedere è tutt’altra cosa rispetto all’ideare. Ecco la fatale differenza.
L’esito delle urne di oggi è così solo un pretesto, forse l’ultimo, per capire davvero se ci si può fidare di un’Europa a trazione tedesca, se le colpe teutoniche delle due guerre mondiali – in tutto 10 milioni di morti versati sull’altare del nazionalismo prima e del nazismo poi, almeno tre crolli economici e tre rinascite – sono state assimilate. Se Merkiavelli, questa Angela venuta dal nulla e diventata ‘’tutto’’, come recitano i manifesti elettorali della Cdu, possa essere considerata una leader europea ancor più che tedesca. Il nomignolo che gira tra i suoi detrattori, la assimila ancora oggi a quel genio tutto italiano capace di piegare i mezzi al proprio fine, nella guerra come nella politica, utilizzando la tattica al posto della ragione, diventando un giorno flessibile (sì a tutti i migranti siriani) e un altro rigida (stop alle frontiere); un giorno possibilista sulla fine della crisi (il destino è nelle nostre mani) e un altro decisamente contraria (serve un ministro delle Finanze unico che faccia rigare dritto i meridionali); un giorno Mutti, in versione Madre Teresa di Calcutta, come il Der Spiegel la effigiò, un altro nazi sul Partenone, leader della Troika anti sprechi ellenici.
Forse Merkel, uno dei sei tra gli otto (otto, contro i 65 governi italiani) cancellieri che hanno segnato la storia della Germania democratica, è tutte queste cose, il bene e il male, i lander e l’Europa, la durezza e la compassione. Ancor più di Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl e Schroeder, ognuno a suo modo fine e inizio di una fase storica ed economica. Ella sembra semplice per i suoi tailleur pastello che ricordano Mao, ma invece è arguta e complessa come una formula matematica. Complessa, come solo gli europei possono essere. Spauracchio, per tutti quelli che non sono come lei, come solo Jerry, il nomignolo che gli inglesi affibbiarono agli uomini della Luftwaffe carichi di bombe per qualificarli quale inevitabile iattura al pari della tempesta, ha saputo essere anche oltre Manica.
Sarà la storia, oltre le cronache presenti in abbondanza, a giudicare questa donna che ha piegato ai suoi voleri un’intera Unione pur di salvare le banche tedesche impelagate mortalmente con i titoli greci, intimato a Roma di fare i compiti a suon di loden, sorriso al giovane Renzi come al compassato Gentiloni, senza mai ammettere di aver sbagliato con la cura da cavallo affibbiata al tricolore e nel porre paletti statutari alla salvifica azione della Banca centrale europea.
I tedeschi sono fatti così: gli dai un compito e lo portano fino in fondo, vincono le battaglie e perdono le guerre, fai una promessa e il giorno prima sono lì a ricordarla.  Davanti ai nazionalismi di chi a Londra e Washington ha ripudiato il ruolo storico del mondo anglosassone nel difendere le democrazie occidentali dalle dittature, riaffidandosi a un cieco isolazionismo, la moderna ricetta pangermanica è l’unica sul tavolo, mentre si aspetta che qualche italiano batta un colpo o magari chissà un francese riavutosi dalla fine della grandeur.
Nel deserto di leadership credibili, solo oggi, la cancelliera, che ha tra i suoi tifosi dell’ultima ora persino Silvio Berlusconi, ha un compito immane. Convincere 420 milioni di europei che lei non pensa solo agli altri ottanta di passaporto tedesco. Sarà difficilissimo, perché oltre agli angoscianti calcoli su deficit, debito e Pil, la marcia dell’Europa verso un’unione politica, se il pargolo Macron e sua moglie accetteranno di esserne assistenti, rappresenterà un passaggio cruciale ancor più della riunificazione. Se ci riuscirà, avrà dimostrato di comprendere quello che capì subito il suo padre politico, Helmut Kohl: la caduta del muro di Berlino è stato l’inizio della globalizzazione. Come l’euro rappresenta lo scudo per combatterla.
Se Angela dimostrerà di aver compreso da dove viene e dove può condurre la terra dove tutto è nato, le ataviche paure del suo popolo e la patetica nostalgia del marco potranno finire definitivamente nei libri di storia, con buona pace di tutte i partiti Alternative del vecchio continente. Ma dovrà operare quella depurazione che già Nietzsche prescrisse per sentirsi un buon tedesco: stedeschizzarsi.
In Europa fare a meno della Germania non è più possibile. L’una ha bisogno dell’altra.

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