di Alexis Tsipras

(Dall’intervento dell’ex premier greco su Le Monde. Traduzione di Laura Sommella) 
Quando, nel 2015, la Grecia subì la follia di un’austerità punitiva che aveva già spinto, dopo il fallimento dei due programmi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la maggior parte del popolo greco sul ciglio di una crisi umanitaria, la maggioranza degli Europei pensava che questo piccolo paese sarebbe rimasto un’eccezione. Il regime subito dai Greci doveva essere infatti un esempio per gli altri stati affinché non seguissero il pendio scivoloso dei pesanti deficit budgetari. 
Oramai, con la crisi provocata dal coronavirus, il deficit budgetario sta per diventare un problema comune a molti Paesi dell’eurozona. Nel corso di una delle mie prime riunioni del Consiglio Europeo, ho provato a convincere i miei colleghi facendo riferimento allo straordinario romanzo di Hemingway “Per chi suona la campana”. Se trattassero così la crisi come fatto in Grecia, arriverebbe anche per i loro Paesi, il tempo in cui, dovrebbero affrontare questa “logica”. 
Quando la negoziazione si è trasformata in un dramma, ho informato dalle colonne di questo stesso giornale, l’opinione pubblica europea della posizione non construttiva delle istituzioni. Il mio forum finiva sull’evocazione del libro di Hemingway. Dicevo che il problema al quale ci trovavamo davanti non riguardava solo la Grecia, ma che ci ritrovavamo nel mezzo di un conflitto tra due strategie opposte sul futuro dell’Europa. L’una era orientata verso l’integrazione politica, nel quadro dell’uguaglianza e della solidarietà. L’altra mirava alla frammentazione e alla divisione. 
Non so a che punto questo articolo si sarà rivelato visionario, alla luce degli eventi attuali. Non so nemmeno come ho potuto convincere i miei colleghi. Benché i governi francesi e italiani abbiano sostenuto la Grecia, non credo che l’abbiano fatto perché consideravano che ci fosse il reale pericolo che la campana a morto sarebbe suonata per loro. In ogni caso, malgrado gli sforzi della Francia, il dialogo sul futuro dell’Europa non ha avuto alcun seguito.
Questa nouva crisi ricorda il periodo in cui si situa il romanzo di Heminway [la guerra civile in Spagna, 1936-1939]. Certamente non ci troviamo davanti ad una vera e propria guerra oggi. Ma tutto è come se lo fosse. Le nostre economie si contraggono da loro stesse, simmetricamente e in termini assoluti. E la nostra priorità è di salvare delle vite. I debiti possono essere rimborsati o ammortiti, come fu il caso dopo una vera guerra, nel 1953 [il 27 febbraio 1953, l’accordo di Londra che rimosse una gran parte del debito tedesco]. 
Ma non si possono ridurre delle vite.
È l’ognuno per sé che vige. Nelle condizioni di urgenza drammatiche che stiamo attraversando, realizziamo che una parte dei dirigenti europei ha tratto delle conclusioni sbagliate delle crisi passate e persiste sulla stessa via sbagliata. Anziché lasciare indietro le ossessioni di fronte alla gravità della minaccia e di dare la priorità alla solidarietà e alla cooperazione, conservano la loro vecchia logica: “non pagheremo i debiti del Sud sprecone”. Non fanno nessuna riflessione sulla mutualizzazione del debito, è “ciascuno per sé” e chi ha bisogno di un prestito dovrà pagarne il prezzo. Come ha fatto la Grecia. Per loro, le regole son regole. Temo che questa dimostrazione di intransigenza estrema e immorale da parte dei dirigenti europei, che, come il primo ministro olandese, Mark Rutte, non vedono nei cambiamenti radicali che conosce l’Europa una ragione per sostenere dei nuovi strumenti economici, non risulti fatale per l’unità dell’Unione stessa. Essa non tiene solo alle condizioni economiche, ma ai nostri valori comuni. 
Per gli Europei, l’idea dell’Unione si materializza quando i medici ungheresi curano i malati italiani, o i medici olandesi fanno lo stesso in Grecia, ma non quando dobbiamo chiamare dei medici volontari dalla Cina o da Cuba per curare i pazienti italiani. Quando il burocrate Klaus Regling, direttore generale del Meccanismo europeo di stabilità (MES), dice agli Italiani, agli Spagnoli e presto ai Francesi che possono certamente prendere in prestito se accettano però le condizioni e un programma economico, quando invece è chiaro che, indipendentemente dai calcoli economici, c’è una crepa nelle relazioni tra gli Stati membri. 
Perché la vita non è solo una questione di soldi, ma soprattutto di dignità. So bene, dopo quattro anni e mezzo di participazione al Consiglio Europeo, che l’Europa avanza lentamente, con dei piccoli tamponamenti e grandi compromessi. Spero che un tale compromesso potrà essere conseguito nei prossimi giorni. La responsabilità spetta principalmente alla cancelliera tedesca, Angela Merkel. Deve scegliere tra il suo retaggio di leader europea e un’opinione pubblica tedesca infetta da molti anni dal virus dello sciovinismo. Se il problema risiede nella parola “eurobonds” prima di tutto simbolica, è sempre possibile trovare una soluzione. Esistono sempre delle soluzioni tecniche, con lo stesso risultato ma un nome diverso. Potrebbe esserci per esempio un accordo sull’emissione di un grande prestito obbligatorio da parte del MES. 
Il MES permette di prestare ad eccellenti condizioni una somma importante ma bisognosa di fondi, che corrisponderebbe, per esempio, al prestito concordato agli Stati Uniti dai repubblicani e democratici per proteggere l’economia americana. Sulla base di questo prestito obbligatorio, il MES può stabilire in seguito una linea di credito per gli Stati membri, senz’altra condizione che quella di far fronte alla crisi economica e sanitaria.  
Andare avanti nel tempo. Delle soluzioni potrebbero essere trovate, ma come l’ha detto John Maynard Keynes tra le due guerre: “La difficoltà non è sviluppare nuove idee, ma di lasciare le precedenti dietro di sé”. Esiste questa volontà politica? In ogni caso, i paesi che hanno consegnato la lettera al presidente del consiglio europeo, Charles Michel, chiedendo gli eurobond, devono essere pronti a continuare a negoziare per imporre una soluzione europea, e non restare a a esprimere il loro disaccordo. E se alla fine, Angela Merkel preferisce le lodi della stampa tedesca ad un’iniziativa forte a favore dell’unità dell’eurozona, questi paesi non dovrebbero esitare a fare dei nuovi passi insieme. Un eurobond senza la Germania e i Paesi Bassi, non sarà sicuramente altrettanto forte ma non dimentichiamo che tutti gli altri paesi riuniti rappresentano più dei due terzi del prodotto interno lordo dell’eurozona. A condizione che vogliano andare avanti nel tempo. Dopo tutto, questo potrebbe essere l’unico modo per far avanzare l’intera Europa. (riproduzione riservata)