Mai sfidare i mercati, non aspettano altro. Quando si vive in un contesto come quello dell’Eurozona, dove il banco può saltare senza un intervento della Bce, è meglio usare prudenza. Si tratti della crisi turca di questi giorni o di quella cinese di un paio d’anni fa o delle recenti tribolazioni per la formazione del nuovo governo Conte, non cambia. Anche i contraccolpi di un’eventuale ritiro della concessione autostradale ad Atlantia, dopo la tragedia di Genova, e i relativi lunghi strascichi legali, possono alla fine creare grandissima incertezza negli investitori.
Fin quando la Banca centrale europea non sarà prestatrice di ultima istanza, come la Federal Reserve americana, bisognerà perciò rassegnarsi ad una realtà: l’Italia emette debito in una moneta che non controlla più. E da qui discendono parte dei suoi problemi. Ma pensare di tornare alla lira per riacquisire la sovranità perduta sarebbe folle oltre che impossibile e forse è questo quello che teme il Wall Street Journal, che ha paragonato l’Italia al nuovo malato d’Europa come se fosse un problema per l’Ue molto più grande della Grecia invece che la sua soluzione. Oppure è quello che pensano coloro che hanno venduto a maggio e giugno 72 miliardi di euro in Btp e corporate bond come rivelato dal Financial Times.
Serve quindi a poco sperare in una proroga del Quantitative Easing dell’Eurotower, previsto in chiusura il prossimo inverno o prepararsi al peggio per accendere la fiamma di una sorta di insurrezione sovranista contro il palazzo d’inverno di Bruxelles, come alcuni esponenti della maggioranza che sostiene l’esecutivo hanno lasciato credere. Proprio quando non si è padroni in casa propria e si dipende per 400 miliardi di euro all’anno da finanziatori esterni, non si devono sfidare i mercati, anche se essi ingiustificatamente, visti i solidi fondamentali dell’economia italiana, hanno riportato lo spread vicino a quota 300 rispetto alla Germania e a livello mai visto dal 2011 nei confronti della Spagna. Con un debito di oltre 2.300 miliardi di euro, una manovra di bilancio tutta da inventare che parte da 25 miliardi di euro ma deve coprire numerose e costosissime voci di spesa  (dalla revisione della legge Fornero alle prime prove di reddito di cittadinanza per finire con l’avvio della Flat Tax) non si può scherzare con chi ti presta dall’estero un euro su tre. Anche in agosto, sopratutto in agosto, quando i mercati sono poco movimentati e sembrano sonnecchiare. Fin quando le regole sono queste e si è appesi ai creditori, al pareggio di bilancio, alla commissione di Bruxelles e alle agenzie di rating, bisogna giocare con queste regole. Ci sarà poi tempo, già dalle prossime elezioni europee, per avviare un vero dibattito riformista sulle storture dell’architettura comunitaria, ma farlo anticipare alle piazze finanziarie è un assist che non si meritano.
Come ha ricordato Il Sole 24 Ore, sono imminenti alcuni giudizi sul debito pubblico italiano che potrebbero, non è detto che accada intendiamoci, ma potrebbero, rendere il cammino verso l’approvazione della prima legge di bilancio gialloverde molto accidentato.

Si inizierà il 31 agosto con Fitch. L’agenzia che attualmente assegna una tripla B all’Italia con outlook stabile; lo scorso 21 maggio ha scritto che la piena applicazione delle ricette di politica economica del programma di governo rischia di far salire il deficit. Non ci voleva Fitch per fare questo calcolo ma sembra un avviso di chiamata. Moody’s, che nel 2010 diede il fuoco alle polveri della speculazione contro l’Italia dopo che anche Deutsche Bank aveva aleggerito di qualche miliardo la sua esposizione in Btp, a ruota il 25 maggio ha invece messo sotto osservazione il rating dell’Italia in vista di un possibile declassamento, ma darà un po’ di tempo al governo e emetterà il suo giudizio a fine ottobre quando, si spera, ci sarà più chiarezza e sarà stata approvata da Palazzo Chigi la legge di Bilancio.


Attualmente il rating è a livello Baa2 ma potrebbe finire a Baa3. A un passo dal perdere la classificazione «investment grade», che le agenzie di rating assegnano agli emittenti più affidabili. Sotto Baa3 o la tripla B nella classificazione delle altre agenzie, si finisce nella terra oscura dei titoli speculativi: detto brutalmente, il gergo di mercato li definisce «spazzatura». Inutile spiegare cosa significhi questo per un paese che seppur molto indebitato custodice la bellezza di 4.000 euro di ricchezza finanziaria privata e si permette, sempre da calcoli del Sole 24 Ore, di avere all’estero, 220 miliardi di euro dichiarati.
Fare confusione con dichiarazioni contrastanti, voler provocare l’incidente per giustificare la riforma, pur necessaria, dell’Unione Europea e dei suoi vincoli di bilancio, minacciare lo sfondamento del superato tetto del 3% di deficit-Pil, annunciare di volersene infischiare dei mercati finanziari, quando da questi si dipende, è dannoso e anche un po’ suicida. L’Italia e chi la governa deve evitare di fornire una prova d’orchestra stonata come nel film di Federico Fellini. Se le quattro maggiori agenzie di rating classificano come «non investment grade» il nostro debito pubblico, la Bce non può più acquistarlo nell’ambito del Qe e anche gli altri investitori si chiederanno perché farlo, persino in Cina, dove il ministro dell’Economia Giovanni Tria si è prontamente recato in cerca di sostenitori. Un declassamento del debito italiano e con esso delle banche tricolori e del tesoro del Tesoro, la Cassa Depositi e Prestiti,  avrebbe effetti devastanti su tutta l’amministrazione e farebbe salire l’onere della spesa per interessi, che oggi si aggira sui 70 miliardi annui.
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti ha per questo messo tutti in guardia, parlando di possibili attacchi speculativi estivi, ma l’intero esecutivo deve essere sulla sua stessa lunghezza d’onda, perché crescono le preoccupazioni del mondo produttivo italiano che non ci sia una regia dietro i tanti annunci. Occorre evitare di emettere profezie autoavveranti. Il problema è sempre il debito pubblico, non chi lo compra.