di Guido Stazi

 

Robert Nozick, il grande filosofo americano teorico dello stato minimo, nel 1974 in “Anarchia Stato e Utopia” scriveva che “il problema della regolamentazione è che lo Stato proibisce azioni capitalistiche tra adulti consenzienti”. Cosa avrebbe detto però se è internet che si fa Stato, occupato per la maggior parte del suo traffico da veri e propri stati paralleli – le grandi piattaforme digitali- che fatturano e capitalizzano ai livelli dei PIL degli stati nazionali, senza debiti però! E che, per un lungo periodo, sono cresciuti senza regole, se non quelle che stabilivano loro. E che adesso stanno investendo enormi risorse nella costruzione di loro, private, reti globali per emanciparsi da internet e privatizzare il transito dei big data.

E’ interessante vedere come i media tradizionali (comunque parti in causa perché vittime dei nuovi cannibali digitali) percepiscono e raccontano il clima, anche politico, che sta maturando e cambiando.
Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano il 20 marzo scorso scrive “ La riscossa degli Stati contro quegli Stati paralleli che sono diventati Amazon, Google, Facebook e Microsoft è iniziata. Finora i risultati sono scarsi, ma lo scontro tra politica e business del web sarà uno dei temi cruciali della campagna elettorale americana del 2020: l’aspirante presidente democratica Elizabeth Warren vuole smantellare le recenti acquisizioni che hanno rafforzato il potere di Facebook, Amazon e Google. E Facebook ha pensato bene di bloccare il post in cui la Warren lanciava la proposta, giusto per confermare che un problema c’è”.

Alessandro Gilioli, blogger e vicedirettore dell’Espresso, il 14 aprile “le aziende digitali don’t be evil (non essere malvagio, il mantra di Google) sono passate da outsider creative – figlie cantinare e libertarie del progressismo californiano- a onnipotenti, avidi, feroci colossi mangiatutto, accentratori di immensi capitali, disinvolti utilizzatori di dati personali, scarsamente rispettosi dei loro utenti a cui
impongono rigide regole private, e con un debole per l’evasione fiscale”.

Gianni Riotta, sulla Stampa del 20 marzo “la disarmante vacuità teorica con cui la storica rivoluzione web è stata affrontata, nell’accademia e sui media – il web pacifista, il web democratico, il web dove tutti hanno diritto di parola-….. è diventata nel giro di pochi anni l’odioso strumento dei troll di Putin che diffondono disinformazione da San Pietroburgo, lo strumento di controllo sociale che i cinesi
fanno sperimentare agli uomini forti in Africa e America Latina. Google, Facebook e Twitter, che ai tempi dell’effimera primavera araba assurgevano ad arma popolare contro i regimi, sono ora disprezzate come i marchi di energia e tabacco di un tempo”.

Certo non pare possibile consentire col titolo del nuovo libro di Christian Rocca, “Chiudete internet”, che però sulla Stampa del 27 marzo scrive ”Le istituzioni europee, e a poco a poco anche quelle nazionali, sembrano essersi stancate di un sistema senza regole che archivia le vecchie industrie tradizionali e crea una ricchezza immensa per pochi monopolisti della Silicon Valley che non si curano di pagare le tasse dove questa fortuna viene prodotta…..Ma si intravede anche una nuova sensibilità generazionale dei politici nativi digitali, campioni nel destreggiarsi sui social ma decisi nel denunciare la posizione dominante dei giganti di internet e pronti a mettere in guardia la società dei pericoli che corre se non si interviene con fermezza. L’Europa la sua parte l’ha fatta, l’America vedremo, ma ora tocca all’Italia”.

L’Economist, che da un po’ sta animando il dibattito sul potere monopolistico dei big tech e sul loro contributo alle dinamiche antidemocratiche e populiste, sostiene che ricostruire la fiducia della gente nel mercato è un antidoto al populismo; e che le leggi e le istituzioni che tutelano e regolano il mercato hanno un grande ruolo e una grande responsabilità in questo. Nel numero dello scorso 17 novembre si legge che “molti esperti e alti funzionari discutono di ridisegnare l’intera architettura dell’antitrust
americano. Un’opzione potrebbe essere che il Congresso scriva una legge completamente nuova e crei una nuova autorità e un nuovo sistema di corti antitrust”.

In attesa che succeda qualcosa, negli USA comunque si registra un notevole fermento politico e culturale, tra i minacciosi post della Senatrice Warren e i tweet del Presidente Trump e molti lavori accademici che innovano e mettono in discussione la teoria e la pratica antitrust ortodossa che ha contribuito a silenziare le autorità americane negli ultimi decenni.

Tra gli altri si segnalano i seminari organizzati da Luigi Zingales a Chicago, presso lo Stigler Center, che da un paio d’anni raccoglie la new wave accademica e intellettuale in digital competition e il fenomeno ormai mediatico di Lina Khan, una giovane studiosa newyorkese di origini pakistane che sul Yale Law Journal ha scritto un lungo saggio “Amazon’s Antitrust Paradox” che, a distanza di quarant’anni, chiama in causa Robert Bork e il suo libro del 1978 “The Antitrust Paradox” e l’ortodossia chicagoan che ha permesso ad Amazon, secondo Khan, “di marciare verso il monopolio cantando il motivo dell’antitrust contemporaneo”. Nel prossimo numero della Columbia Law Review, Lina Khan pubblicherà un nuovo
saggio sulla separazione tra proprietà delle piattaforme digitali ed esercizio delle attività commerciali per il loro tramite; la Khan ha anche fondato una scuola di antitrust intitolata a Louis Brandeis, il Giudice della Corte Suprema che per primo applicò e interpretò lo Sherman Act del 1890.

Gerald Berk, un politologo americano che ha ricostruito in un libro il pensiero antitrust del Giudice Brandeis, nelle sue sentenze alla Corte Suprema nei primi trent’anni del secolo scorso, afferma che se tornasse oggi Brandeis “rimarrebbe perplesso di fronte alla scena di monopoli che agiscono senza restrizioni, regolamentari o di altro tipo. Di imprese che predicano il vangelo dell’efficienza nel
momento in cui esercitano la sorveglianza più estesa nella storia umana. Di percettori di rendite che mostrano scarso riguardo verso l’indipendenza dei produttori dei beni che vendono. Di aziende che plasmano le menti dei cittadini, filtrando le informazioni funzionali alla formazione delle opinioni politiche”. Insomma, vedremo se e quando questi movimenti di opinione produrranno negli Stati
uniti, a livello politico, di governo o delle istituzioni a tutela della concorrenza, un cambio di passo o comunque approcci più incisivi all’economia digitale.

Nel resto del mondo occidentale occorre registrare i recenti contributi sul tema dell’Australian Competition and Consumers Commission (Digital Platform Inquiry), della Commissione Europea (Competition Policy for the Digital Era), del Governo inglese (Unlocking Digital Competition) e dell’House of Lords (Regulating in a Digital World) sempre nel Regno Unito. I panel cui sono stati affidati i rapporti sono molto cauti, uno si è definito centrista, ma tutti affrontano i problemi determinati dal potere di mercato delle piattaforme digitali in modo accurato, con proposte interessanti, ma non risolutive in questa fase.

Comunque vanno nella direzione giusta: in sintesi se ne possono evocare tre, due in materia antitrust e uno di carattere organizzativo. Pare solida la consapevolezza della pericolosità, per la concorrenza effettiva e potenziale, del potere di mercato dominante delle piattaforme digitali: effetti di rete diretti e indiretti, economie di scala e di scopo, sunk cost, market tipping, switching cost e lock-in, barriere all’entrata e all’uscita…..tutto il vocabolario antitrust è impattato dalla rivoluzione digitale e dai suoi protagonisti. Insomma winners take all e le posizioni di mercato di Google, Apple, Amazon e
Facebook appaiono in questo momento inscalfibili e persistenti. L’unica disciplina concorrenziale, potenzialmente disruptive, la esercitano loro su mercati dove paradossalmente non sono ancora presenti e, naturalmente, in quelli contigui.
Grazie alla loro potenza di fuoco, in termini di big data ed economico-finanziaria, molti settori economici tradizionali potrebbero essere rapidamente vampirizzati. Che si propone di fare? Alzare e potenziare i livelli di vigilanza antitrust, enforcement, misure cautelari, inversione dell’onere della prova, interoperabilità e portabilità dei dati: insomma tutto potrà fare brodo, ma l’impressione è che la ciccia
sia oramai altrove.

E questo perché, venendo al secondo file antitrust, le imprese citate, insieme a Microsoft, negli ultimi dieci anni hanno acquisito circa 400 società, tra start-up e imprese già affermate nell’economia digitale.
Questo appare il fallimento più grave delle norme e del sistema delle istituzioni a tutela del mercato: si è consentito alle grandi piattaforme digitali di fare terra bruciata intorno a loro, consolidare e mettere in sicurezza il potere di mercato di ciascuna. Insieme alle centinaia di start-up di cui non sappiamo nulla perché neanche passate al vaglio antitrust, in cui magari c’era qualche killer application che avrebbe messo a rischio l’incumbent, due casi per tutti, vagliati e autorizzati senza condizioni dall’antitrust americano ed europeo: con l’acquisto di Double-Cick Google, già dominante nelle pubblicità on-line, è diventata una macchina da guerra e da utile; quando Facebook la acquisì, Whatsapp fatturava solo 20 milioni di dollari, ma sborsò 16 miliardi di dollari per assicurarsi 450 milioni di whatsappisti e i loro dati, privando il mercato di un protagonista.
Che fare? Si propongono interventi normativi per cucire i buchi della rete del controllo delle concentrazioni e condivisibili misure di enforcement, maggiore attenzione all’innovazione, alla qualità, ai dati. Forse però bisognerebbe ragionare, in certi casi, di divieti per se, salvo prova contraria.

La terza questione, di carattere organizzativo: in alcuni rapporti si raccomanda l’istituzione di un organismo di vigilanza, indirizzo e coordinamento per i mercati digitali. Di questi tempi la creazione di nuove strutture burocratiche non appare molto popolare e potrebbe essere poco efficace. Sarebbe meglio rifocalizzare sulle questioni digitali le istituzioni che già si occupano, a livello antitrust e regolamentare,
dell’argomento. In Italia, ad esempio, Antitrust, Agcom e Privacy stanno per portare a termine una
comune indagine conoscitiva sui Big Data: proseguire e valorizzare questa esperienza riorganizzando le rispettive istituzioni, dotandole di direzioni generali per le questioni e i mercati digitali potrebbe essere un modo per garantire coordinamento, effettività ed efficacia ai rispettivi interventi, spostando il baricentro delle Autorità sulla nuova frontiera digitale.
E’ la soluzione cui pare stia lavorando la Federal Trade Commission, l’Antitrust americano, che avrebbe deciso la creazione di una Technology Task Force dotata di un largo mandato investigativo e di enforcement nei mercati digitali. Incluso un ex post assessments con la possibilità di riconsiderazione e intervento su mergers che hanno avuto effetti anticompetitivi.

Vedremo, come si dice in questa stagione, se son rose fioriranno….