A dieci anni dalla crisi è possibile trarre un bilancio. Le ultime statistiche dimostrano quanto sì è sempre sospettato: la Germania è il paese europeo ad essere cresciuto di più. Tra il 2007 e il 2017, il Pil del paese dei lander è aumentato del 30%, poco meno degli Usa (+ 33%), più di Gran Bretagna (+29%), Francia (+24%), Spagna (+19%) e Italia (10%). Tanto per avere un’idea, mentre il mondo occidentale si leccava le ferite della recessione, Cina (+156%), India (+129%) e Indonesia (101%) hanno viaggiato molto più veloci.

Se ne potrebbe trarre facilmente la conseguenze che l’Europa così non va. E sarebbe anche giusto. Ma a ridosso delle prossime elezioni, è doveroso guardare dentro casa e proporre una serie di opportune riforme. La legislatura, piuttosto tormentata e dai tre governi (Letta, Renzi, Gentiloni) si chiude con risultati economici invece incoraggianti. E’ un piccolo miracolo.

La borsa è tornata finalmente ai livelli pre-Lehman Brothers, sopra i 22.000 punti, quando cinque anni fa il Ftse Mib era a 15.000; il Pil, che nel 2013, era crollato del 2,9%, oggi chiuderà il 2017 presumibilmente con un +1,7%; la disoccupazione continua ad essere ben sopra la media europea ma è lievemente calata dall’11,9% di cinque anni fa all’11,2% di oggi; l’inflazione, di fatto sparita dai radar e congelata dai tassi zero e dall’effetto dell’economia digitale, è ancora ben lontana dall’1,6% del 2013 (0,9%); l’export traina molto di più l’economia italiana: +1,5% l’aumento nel novembre del 2017 contro il + 0,5% di marzo 2013 (inizio della legislatura); lo spread, grazie al Quantitative Easing della Bce, è inchiodato intorno quota 150, quando cinque anni fa era ancora a 313. L’unico dato dolente è quello del debito pubblico.

L’indebitamento complessivo è infatti cresciuto mostruosamente in termini assoluti, nonostante l’ombrello salva-spread dell’Eurotower e il costo del denaro azzerato, passando da 2.000,36 miliardi di euro (123% del Pil) a 2.283 miliardi (132%). Quasi trecento miliardi in più, oltre 600, se paragonati con il livello raggiunto nel dicembre del 2008, primo anno di crisi. Si tratta di una montagna insopportabile e per certi versi ingiustificata, partorita dal K2 del debito, da cui deve partire qualsiasi programma di un futuro governo nel 2018. Ecco tre punti di un possibile piano d’azione.

Tagliadebito. Le privatizzazioni finora compiute in Italia, dal 1992 ad oggi, hanno fatto incassare allo Stato 170 miliardi di euro ma il debito è rimasto altissimo: oltre il 133% del Pil e sopra i 2.300 miliardi di euro. E’ evidente che va ristrutturato, senza vendere i pochi gioielli di famiglia che peraltro sono finiti quasi tutti in mani straniere. Per anni si è parlato di un taglio del debito pubblico e della necessità di fare una stima degli assets statali da dismettere. L’ultima risale a dieci anni fa. Il patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare, sarebbe pari a circa 400 miliardi di euro, da un’azione dell’Eni al faro sperduto in Sardegna. Ma in molti sospettano che sia molto meno il valore attuale. Serve quindi una due diligence seria e immediata per capire due cose: a quanto ammonta attualmente questo portafoglio e quanti sono davvero i debiti fuori bilancio, quei ‘pagherò’ dell’amministrazione di cui non si trova traccia negli impegni di spesa. La Corte dei Conti è arrivata a stimare nel 10% quella parte di bilancio pubblico che non ha riscontri cartacei nei libri di bilancio. A ciò deve essere preposta una struttura apposita della Ragioneria Generale dello Stato, messa troppo da parte e invece struttura di eccellenza, con il contributo della Corte dei Conti, senza nominare inutilmente un commissario esterno alla Spending Review.
Una volta verificata l’entità di questo patrimonio, che spesso non produce alcun reddito, va messo a frutto emettendo titoli di debito nuovi che possano essere scambiati con altri già in circolazione, che andrebbero poi cancellati. Parallelamente a questa operazione, occorre inserire nella legislazione italiana, sulla base del principio comunitario di reciprocità, una norma che preveda l’impossibilità per uno stato membro di scalare un’azienda nazionale ritenuta strategica senza verificare prima la fattibilità con Palazzo Chigi, come proposto dal ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda.

E’ paradossale che i francesi blindino le loro aziende e poi gestiscano o addirittura comandino, in giganti un tempo pubblici o quanto meno italiani, come Generali, Telecom, Parmalat, Mediobanca. No si tratta di nazionalismo, ma di sano buon senso. Tutte le banche italiane più importanti sono attualmente sotto il controllo di fondi esteri, quando una volta erano a guida statale. Questo ha comportato da una parte, un impoverimento dell’economia italiana e dall’altra, una dipendenza dello stesso gestore del debito pubblico dagli istituti di credito che ancora oggi detengono nei loro bilancio un quarto dei titoli emessi dal tesoro. L’Italia deve perciò creare nuovi gioielli nazionali e blindare quelli rimasti, grazie anche all’opera centrale della Cassa Depositi e Prestiti.

Tagliaspesa. Non basta però provare a tagliare il debito, va cambiata anche la spesa che crea il debito, anno per anno. Tagliarla, riqualificandola, significa soprattutto ridurre l’indebitamento, vero problema dei prossimi mesi quando finirà il Quantitative Easing della Bce. Le soluzioni per razionalizzare una spesa pubblica cresciuta di 300 miliardi di euro negli ultimi 15 anni, fino ad arrivare agli 820 miliardi attuali, sono sotto gli occhi tutti. Dal 1986 a oggi si sono succedute due Commissioni tecniche e otto tra Commissari e subcommissari: tutti si sono impegnati ma i risultati ancora non si vedono in modo concreto. Sul piatto sono rimasti dossier molto utili da cui si può ricavare una lista di 10 cose da fare velocemente per ricavare anche più dei 10 miliardi di euro l’anno che il governo aveva promesso per il 2016. Eccole, in rapida sintesi. Applicazione dei costi standard, anche nei comuni; riduzione delle stazioni appaltanti da 35.000 a 30; chiusura delle società partecipate in perdita, in tutto oggi sono 7.726; riduzione delle locazioni passive che lo stato paga per circa 12 miliardi l’anno e riappropriazione degli asset ceduti agli enti locali; taglio delle 720 agevolazioni fiscali, che oggi valgono 250 miliardi di euro; riduzione delle agevolazioni alle imprese pari a circa 36 miliardi di euro l’anno, di cui, secondo la Commissione Giavazzi, almeno dieci tranquillamente eliminabili; riduzione delle 13 diverse prestazioni Inail; spending review dei Fondi Ue; rafforzamento della Consip per riportarla alla sua funzione originaria, come pensata da Carlo Azeglio Ciampi, la riduzione della spesa.

CambiaEuropa. Presi dalla Brexit, dal governo austriaco xenofobo e dal vento di destra che rischia di spazzare via tutto, non ci si concentra sulle cose da fare in Europa per evitare che tutto ciò avvenga. L’Italia ha necessità di rimanere ancorata saldamente all’Europa e all’euro: nessuna futura maggioranza potrà convincersi e convincere gli italiani del contrario. Ma non si può negare che le norme europee necessitano di alcuni correttivi necessari proprio per alleviare le difficoltà di chi si è impoverito con l’avvento della moneta unica. Negare questa evidenza è controproducente.
In questo senso, va modificato il Fiscal Compact, la norma che impone la riduzione costante del debito pubblico di un ventesimo l’anno per la parte eccedente il 60% del Pil in due direzioni. Da una parte, nel recepire definitivamente come Trattato Europeo il Fiscal Compact occorre invocare, una revisione delle regole sulla riduzione del debito. In secondo luogo, bisogna computare nella voce debito anche quella del debito privato. Se l’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo non ha il terzo debito privato al mondo. Tutt’altro. Considerando il debito consolidato, l’Italia diventa un paese tra i più virtuosi. Non si poi può accettare che le norme sui salvataggi bancari facciano ricadere l’onere del salvataggio sui risparmi dei privati, quando il basso livello del loro indebitamento non viene considerato per stabilire la stabilità o meno di un intero paese.
Per rafforzare la partecipazione all’Unione Europea vanno poi finalmente completate l’Unione Bancaria (con la garanzia unica dei depositi) e l’Unione Fiscale, vera chiave di volta per creare un sistema unico tributario senza paradisi all’interno stesso dell’Eurozona. E’ una riforma ancora più urgente della Web Tax sui grandi player della Rete, perché abbatte le differenze fiscali tra paese e paese e offre anche una risposta alla politica tributaria americana di Donald Trump, che ha portato al 20% la tassazione delle imprese. Dal punto di vista politico, si deve poi modificare la legge elettorale europea, prevedendo l’elezione diretta del presidente della Commissione, dare vero potere legislativo al Parlamento Europeo e prevedere l’istituzione del ministro unico del Tesoro e non delle Finanze come propone Jean Claude Juncker, che possa emettere Eurobond, debito comune europeo. Solo così si potrà arrivare ad una federazione europea di stati e in essa affidare all’Italia un ruolo da protagonista.