Forse memore del destino tragico occorso alla vera Invencible Armada, messa insieme proprio 430 anni fa da Filippo II per spezzare le reni all’Inghilterra, il nostro premier Paolo Gentiloni ha esplicitamente escluso di volerne formare una per intervenire in Libia contro il traffico di migranti. Con questa saggia decisione ha non solo dimostrato buone letture storiche ma anche un acuto senso politico di cosa sia oggi il medioriente, e la Libia in particolare. Dove la complessità politica e i flussi di interdipendenza sono tali da sconsigliare – se ne accorse troppo tardi George W. Bush in Iraq nel 2003 – usi dello strumento militare fini a se stessi. Più che la pratica americana, infatti, in Libia occorre seguire la lezione dei veri maestri della regione, quegli inglesi che lo dominarono più a lungo di tutti, subordinando lo strumento militare alla politica e non viceversa. Così oggi forse da noi fa sorridere il fatto che nel porto di Tripoli sia arrivato ieri solo un nostro pattugliatore d’altura. Sarebbe un errore. Lo si vede dalla reazione furiosa di Khalifa Haftar, il generale libico assiso nell’est che sogna di diventare il nuovo Gheddafi, ma che da sempre sente nell’Italia l’argine più forte alla divisione della Libia e con intuito ha subito colto questo segnale politico. Tanto da fargli lanciare minacce di bombardare ogni nave militare italiana in acque libiche. E che si tratti di minacce serie, ancorché probabilmente fatte all’insaputa del protettore francese e tollerate dai suoi sponsor regionali quali l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, lo indicano la rilevanza che ottengono nella stampa araba regionale: in primis l’ostile emittente del Qatar Al Jazira, ma anche la più simpatetica emittente saudita Al Arabya. Le minacce sono credibili, ancorché ad Haftar non sarà in realtà concessa nessuna effettiva escalation militare, perché dopo il disastro del 2011 la strategia italiana di parlare con tutti senza farsi dettare la linea da nessuno sta lentamente producendo frutti. Dopo aver infatti resistito nei drammatici mesi dell’inverno 2011 alla tentazione di farci isolare come amici del tiranno Gheddafi, con conseguente scippo della nostra storica presenza con Eni, partecipando e così costringendo nel multilaterale l’avventura solipsistica di Francia e Regno Unito – come ha ben spiegato il presidente emerito Napolitano – l’Italia ha cominciato a risalire la china. Oggi quella italiana è l’unica ambasciata aperta, e Eni lavora mentre Total per lo più punta sul mercato dell’Iran. Buone notizie vengono poi dalla assai complessa situazione dei flussi migratori, perché se malgrado la crisi dei mari il numero di migranti arrivati al 31 luglio di quest’anno è quasi lo stesso dell’anno scorso (93774 nel 2016 e 94802 fino ad oggi), la vera novità è che proprio nel mese di luglio essi si sono dimezzati, passando dai 23552 del luglio 2016 ai 10781 del luglio 2017. Come mai questa straordinaria inversione di tendenza? Perché le buone analisi fanno le buone politiche. Ed è merito del ministro Minniti avere fatto l’una e poi le altre, prima parlando puntigliosamente con tutti gli attori tribali, religiosi e nazionali, e poi individuando concettualmente nel mare di sabbia del sud libico la vera falla di tutto il sistema mediterraneo. Tanto che la diminuzione di luglio crediamo essere non tanto merito della guardia costiera libica, un colabrodo dove sono presenti diverse milizie, quanto del più efficace lavoro dell’esercito libico alla frontiera sud. Il Sahel si sta imponendo, grazie all’Italia, come la vera frontiera su cui lavorare. Non a caso ieri è stato rilasciato in Mali dopo ben sei anni un ostaggio sudafricano di Al-Qa’ida. Ma la tela di Minniti accompagna questo vero risultato non esponendolo pubblicamente, e proteggendolo con misure pratiche e simboliche. Per esempio elaborando per le Ong – alcune delle quali lavorano troppo in contiguità con la guardia costiera libiche o altri attori – un decalogo di collaborazione con le autorità italiane in 13 punti, ritenuto ragionevole da quelle più serie. E cercando in Parlamento – e ad onor del vero pure trovandolo – il consenso e il sostegno a questo decisivo interesse nazionale italiano, che in Libia coincide con una futura stabilità unitaria e un nuovo assetto per tutta la regione del nordafrica. Perché questa è ancora la dimensione da affrontare e forse la più spinosa: tutti gli attori libici – piccoli e grandi, compreso Haftar – hanno un loro sponsor regionale. Se l’Italia vuole imporre anche in questa terza e più decisiva dimensione del conflitto libico la sua proposta di una Libia unita nell’interesse collettivo e non solo di qualcuno, deve rimodulare i suoi rapporti con tutti, anche in Europa. Con il Qatar, complice la crisi del Golfo, ha già cominciato. Adesso tocca a chi sostiene Haftar, per esempio l’Egitto. Oggi l’Italia non ha ancora un ambasciatore al Cairo, proprio a causa della nostra scelta di non sorbirci verità di comodo sul caso Regeni. Un caso che andrebbe riletto, anche politicamente. Il governo italiano esca allora dal burocratico dilemma tra far tornare un ambasciatore di ruolo, chinando il capo, oppure continuare a non avere voce né credibilità in quella capitale. Si applichi all’Egitto il di più di politica che pare funzionare altrove. Si nomini un ambasciatore “politico”, alla Calenda. Rifiuteranno le credenziali, dopo settimane di diplomazia pubblica? Lo faranno davanti al mondo. Ciò porterà in ambedue i casi comunque giustizia alla sua memoria, credibilità alla nostra politica anche regionale, e maggiore rispetto anche tra i nostri avversari arabi in Libia. Siamo sempre in medioriente, non dimentichiamolo. Qui chi non contratta duramente sul prezzo non viene preso seriamente su nulla.