La notizia dell’arresto di Domenico Lucano, sindaco di Riace, per favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha violentemente riportato sotto i riflettori la questione migratoria. In poche ore, il panico creatosi intorno dalla manovra finanziaria del governo M5S-Lega è stato deviato come un corso d’acqua in piena verso la questione migranti, che tanto aveva appassionato gli addetti ai lavori durante tutta l’estate.

Dalla seconda metà degli anni ‘90 ad oggi, in Italia l’immigrazione è stata perennemente al centro del dibattito istituzionale e (soprattutto) pubblico italiano. In un ventennio costellato di tragedie (dal naufragio “colposo” della Katër i Radës ai morti senza fine nel Mediterraneo) la questione migranti ha scatenato degli assiomi sui quali oggi, più che mai, è diventato impossibile discutere lucidamente.

Il termometro perfetto per misurare la gravità della situazione è la confusione totale che regna nelle classi dirigenti di tutta Europa. E non si tratta solo di guardare a Salvini e Orbán: troppo facile. Da Prodi a Macron, passando per l’immancabile Renzi, lo stesso centrosinistra che oggi tuona di “restare umani” ha reagito duramente all’intensificarsi del flusso migratorio. Chiusura di porti, frontiere inavvicinabili e “aiutiamoli a casa loro” (slogan dall’ipocrisia più unica che rara) sono idee partorite dalla classe dirigente “di sinistra”, oltre che ovviamente dell’estrema destra.

La non volontà, da parte di molti Paesi europei, di distribuire equamente i migranti approdati in alcuni dei Paesi più economicamente deboli dell’Unione Europea è stata la ciliegina sulla torta.

Le diseguaglianze create in secoli di colonialismo, di superiorità economica schiacciante e di tentativi di ripresa stroncati sul nascere hanno scavato un fossato invalicabile tra l’Occidente e il Terzo Mondo. Due continenti come Africa ed Europa, geograficamente quasi confinanti, non sono mai stati più lontani sul piano dell’indipendenza economica e politica. E la colpa, è innegabile, è quasi del tutto dell’Occidente. E questo, nonostante l’evidenza, non è (né probabilmente mai sarà) uno degli assiomi fondamentali quando si parla di immigrazione. Anzi: Matteo Renzi ha sostenuto, qualche tempo prima delle elezioni politiche del 4 marzo, che la sinistra non dovrebbe sentirsi in dovere di accogliere tutti e che si sarebbe dovuta liberare di “una sorta di senso di colpa”. Colpe che l’Italia, nella sua pur breve storia coloniale, ha storicamente (vedasi la permanenza italiana in Africa settentrionale e orientale) e ha pure nell’ultimo decennio (vedasi lo scandalo OPL245 in Nigeria).

Sempre legato al vocabolo “diseguaglianze” è un altro, inquietantissimo fatto. Che, al pari, del precedente, non è uno degli assiomi di cui sopra.

Il rapporto Oxfam di inizio 2017 metteva (in teoria) il mondo di fronte a un dato folle: 8 persone possiedono la stessa ricchezza di metà della popolazione del pianeta. Una differenza impressionante, per la quale i numeri non bastano a spiegare l’assurdità di un sistema mondo in cui centinaia di milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno e in cui, nelle stesse 24 ore, il CEO di Amazon ha guadagnato 86 milioni di dollari. Il rapporto di distribuzione della ricchezza nel mondo, quindi, dovrebbe essere chiaro.

Nel caso in cui, quindi, si dovessero prendere in considerazione le motivazioni per tentare di abbandonare il proprio Paese, è facile capire che non si parla solo di guerre. Vanno coniugate queste diseguaglianze a una crescita demografica senza precedenti, che già da ora e soprattutto nei prossimi decenni farà letteralmente esplodere i censimenti africani.

Tuttavia, la linea scelta dall’abbandono di Mare Nostrum è diventata sempre più quella della “fermezza”: i migranti, considerati causa quasi “naturale” di accesi scontri sociali, non sono i benvenuti se non in casi del tutto eccezionali. E tutto d’un tratto, “l’attacco al cuore dell’estabilishment” si riduce drasticamente a qualche sparata contro coloro che cercano condizioni di vita migliori. E subito chi un tempo teneva la stessa identica linea nei confronti del fenomeno si lancia in apologie, volte a recuperare una sorta di “purezza perduta” a sinistra. Rendendo il migrante una sorta di martire in fuga da guerre e stermini, cosa che in molti casi semplicemente non è. Non solo: per giustificare la presenza sul suolo italiano di non italiani si arriva ad usare tavole economiche che mostrano ancor più la bestialità nel trattamento degli immigrati: “ci pagano le pensioni”, “fanno i lavori che noi non vogliamo più fare”, “lavorano nei campi di pomodori”. Frasi, probabilmente, sentite solo dalla bocca dei Confederati americani per difendere la schiavitù.

E mentre il dibattito pubblico si appiattisce su queste due posizioni, la grande assente è la ragione critica. La grande “emergenza migranti”, in un continente fatiscente come l’Europa, semplicemente non ha ragione di essere, e devia l’attenzione della sempre più infervorata opinione pubblica.

Una simpatica distrazione, quella che vede contrapposti gli “umani” ai “non umani”, sempre pronta ad essere usata come antidoto per la vuotezza di contenuti del dibattito politico degli ultimi 25anni. Con un rischio a margine: gridare “al lupo” in una situazione in cui non c’è nessuna emergenza farà passare sotto osservazione qualsiasi emergenza vera. Perché è esattamente ciò che sta succedendo: con una bomba demografica in arrivo dai continenti più poveri del pianeta e con una redistribuzione sempre più iniqua tra primissimo e terzo mondo, ci affanniamo a sostenere che 150 persone in un porto italiano, 40 clandestini a piede libero o un sindaco che tenta di favorire l’integrazione abitativa e lavorativa di migliaia di migranti siano tra i problemi più gravi di cui occuparsi.

Sorgerà presto un dubbio: ci saranno sempre abbastanza campi di concentramento sulle coste nordafricane pronte a contenere le partenze?