Fabio Massimo Parenti 

Chi ha nascosto o sta nascondendo i dati negli Usa e in Europa? Quale paese pagherà il prezzo più alto? Questa crisi è un banco di prova per tutte le autorità del mondo, per tutti i popoli. La chiamavano la Chernobyl cinese, i commentatori nostrani, anche con un pizzico di cinismo, ma la realtà sta dimostrando che si potrà rivelare la Chernobyl dell’Europa e dell’Occidente. Al contrario, la leadership cinese va rafforzandosi, dato che l’emergenza sta rientrando grazie a misure e politiche che, come vedremo sotto, hanno ricevuto il plauso di molti paesi, organizzazioni e studiosi di tutto il mondo. La risposta cinese all’epidemia è stata una lezione, per rapidità ed efficacia. I cinesi hanno aggredito il problema ed hanno sin da subito collaborato con la comunità internazionale. Una lezione a lungo a disposizione del mondo intero, due mesi. Una lezione non appresa. Invece di guardare onestamente al dramma del popolo cinese, dapprima lo abbiamo sfruttato per criticarne il sistema politico, dopodiché lo abbiamo sottostimato e infine lo abbiamo subìto, rischiando di pagare un prezzo molto salato. Un prezzo che ha un’unica origine: arroganza e malcelato senso di superiorità. La nostra globalizzazione neoliberale sarà forse un ricordo, oppure no. Quel che è certo: i modelli politici ed economici verranno ampiamente messi in discussione e quello cinese, sempre laboratorio, diverrà riferimento di un crescente numero di paesi e soggetti politici.  

Ecco i due errori più gravi commessi dall’Occidente. Primo: etnicizzare il virus. Sin dall’esplosione dell’epidemia, vi sono stati episodi di discriminazione contro i cinesi. Questo virus è stato collegato a una nazionalità, a una etnia, e fin da subito ne hanno fatto le spese i cittadini cinesi all’estero. Non fu così per la suina del 2009, che esplose negli Usa, secondo il CDC americano, e si diffuse nel mondo, causando centinaia di migliaia di morti. Il governo statunitense dichiarò l’emergenza dopo sei mesi e dati attendibili sono giunti solo dopo alcuni anni. Non fu chiamato virus americano, a differenza di quest’ultimo, e il paese d’origine non fu accusato di nascondere i dati o di aver agito in ritardo. Patogeni diffusisi nel mondo hanno avuto origini varie, di volta in volta in paesi diversi. Non c’è un’esclusività geografica. 

Secondo: è necessario ricordare che in merito a questo Covid-19 non v’è certezza alcuna. La scienza ha prodotto un’enorme mole di studi e pubblicazioni sin dale prime fasi, soprattutto cinesi, e ciò nonostante ancora molti aspetti rimangono contraddittori e non completamente chiari, come la resistenza, l’infettività in fase asintomatica e la lunga incubazione. Ne sappiamo qualcosa in più, ma ancora non abbastanza. Queste caratteristiche sono state confermate, ma con molte variabili e interpretazioni. Inoltre, la stessa origine cinese è stata messa in discussione da nuove ricerche condotte in Cina e in Giappone.  L’identificazione del genoma in diversi paesi ha dimostrato l’esistenza di vari gruppi di questo virus, quello italiano ad esempio non corrisponderebbe a quello cinese, ma si tratterebbe di variazioni minime, e negli Usa sono state riscontrate numerose varianti, non presenti in Cina. C’è anche l’ipotesi che il virus cinese possa essere stato importato. Ciò non vuol dire che sia stato pianificato, ma semplicemente che sia giunto in Cina da un altro paese. Ma lasciamo tutto ciò agli studi ed agli esperti, che nel prossimo futuro ci delucideranno sulla storia di questo virus.

Come i cinesi ieri, oggi sono stati gli italiani a divenire bersaglio di attacchi e critiche. Discriminazioni subite da italiani all’estero e rappresentazioni distorte ci hanno dipinto come i nuovi untori. Come per la Cina, anche in Europa non v’è certezza dell’origine “italiana” nella diffusione del virus, dato che sembra che i primi casi siano stati rilevati in Germania a fine gennaio. Non dobbiamo nazionalizzare il problema. È una battaglia globale. Ci vuole solidarietà e cooperazione, no caccia all’untore. 

Molti sostengono che sia l’ignoranza a generare discriminazione. Certamente questa componente esiste nelle varie manifestazioni di razzismo. Tuttavia, in questo caso i sentimenti anticinesi sono stati alimentati dalle rappresentazioni mediatiche e politiche di cui si è fatto cenno. Rappresentazioni interessate a gettar discredito, dapprima sulla Cina e in seguito sull’Italia, i due estremi della nuova Via della Seta, la BRI. 

Possiamo asserire che le discriminazioni degli ultimi mesi abbiano avuto origine nella competizione geopolitica. Qualcuno ha voluto sfruttare l’emergenza epidemica per proseguire nell’intento di contrastare il crescente protagonismo della Cina, il suo sviluppo pacifico. Gli Usa, come noto, sono i primi della fila in questo pericoloso gioco geopolitico. 

La politicizzazione di questo virus, tramite la sua etnicizzazione, costituisce un elemento inaccettabile. La frase più eloquente, emblema di questa partita giocata in modo sleale e disumano, è quella di Mike Pompeo del 30 gennaio scorso, quando definisce la Cina e il partito comunista “la più grande minaccia per l’umanità”. La volontà di Washington contro la BRI e i vari tentativi di sabotarla sono ben noti. Con pressioni sui paesi europei e mediorientali, con le sanzioni all’Iran, con la guerra contro la Siria e con molte altre azioni in campo tecnologico e commerciale, Washington è intenta a fare tutto il possibile per contenere il consenso internazionale di cui gode la Cina. Purtroppo quella di Pompeo non è stata una voce isolata e le critiche contro il sistema politico cinese sono giunte da più parti. Dalla critica alla Cina alla sottostima della crisi, fino a giungere alla confusione politica nel gestire la situazione in Europa e negli Usa, oggi la Cina ne sta uscendo più forte. 

Lezione non appresa. Note personali e realtà internazionale

A fine dicembre sono rientrato in Italia per le vacanze invernali, dopo aver concluso il “semestre autunnale” nella mia università di Pechino. Da fine gennaio, quando sono state prese le prime misure drastiche di contenimento dell’epidemia in Cina, sono stato controllato a distanza, quotidianamente, dalla mia università. In seguito mi hanno consigliato di rimanere in Italia fino a quando non si sarebbe risolta la situazione. Sarei comunque potuto rientrare, mi dissero, ma mi avrebbero messo in quarantena. All’epoca, l’Italia non era zona di epidemia. Ancora oggi, a maggior ragione, mi si chiede, come agli altri colleghi stranieri, di inviare informazioni sullo stato di salute su base giornaliera. Lo si fa tutti volentieri, ci si sente tutelati anche a 9 mila km di distanza. 

Nella gestione della crisi, la Cina si è comportata molto meglio rispetto all’epidemia SARS del 2003, ricevendo anche il plauso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La sequenziazione e l’isolamento del genoma di questo nuovo virus nei primi di gennaio (per l’esattezza il 5 e 7 gennaio), le misure di contenimento, a circa tre settimane dalle prime evidenze, la quarantena imposta a circa 60 milioni di persone, quella autoimposta nel resto della Cina – da parte di cittadini informati e mobilitati in massa – lo screening a tappeto organizzato con le autorità locali, con l’utilizzo delle tecnologie informatiche (robot, droni, app), nuove piattaforme, applicazioni, controlli sul territorio in tutti gli scambi logistici hanno consentito di contenere l’epidemia a livello nazionale e contenerla all’interno della provincia di Hubei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e in questi giorni la vita sta lentamente tornando alla normalità, anche nell’Hubei.

Altra nota personale. La mia università, così come hanno fatto tutte le istituzioni del paese, mi inviava quotidianamente informazioni, consigli e note sull’evolversi della situazione, sui miei diritti, sulle regole di comportamento. Ricevevo anche delle tabelle con tutti i voli e i treni dove erano stati rilevati dei contagi. Nel caso avessi preso uno di quei vettori, lo avrei dovuto comunicare immediatamente. Tutto ciò, è stato riconosciuto come grande atto di responsabilità, dalla popolazione cinese e dai massimi esperti internazionali. L’Oms sostiene che la Cina sia andata oltre le prescrizioni a livello internazionale nel caso dell’esplosione d’epidemia. Un esempio è l’uso diffuso, totale, di mascherine e guanti, così come i controlli e gli screening sul territorio, anche tramite l’uso di tecnologie per tracciare i movimenti. 

Questo comportamento virtuoso, non privo di limiti, è stato un dato positivo per la salute mondiale, se solo tutti gli altri paesi avessero cominciato a prendere in tempo misure cautelative nel controllo dei flussi in entrata e in uscita. Si sa, la Cina è il principale partner commerciale della maggior parte dei paesi del mondo, circa 130. In Italia chi rientrava dalla Cina non faceva quarantena obbligatoria. 

Un altro aspetto, che ho appreso dai miei numerosi contatti in Cina, è stata l’unità popolare, la collaborazione, la cooperazione tra cittadini. Il popolo cinese si è unito per sconfiggere un nemico comune. Come? Un recente report di Lancet del 7 marzo, quando in Italia eravamo già a un punto di crisi delicatissimo, benché il governo avesse preso misure coraggiose, faceva notare che “ora c’è un vero pericolo, che i paesi abbiano fatto troppo poco, troppo tardi per contenere l’epidemia” e che “sebbene ad altre nazioni manchi la politica di comando e controllo della Cina, ci sono importanti lezioni che i presidenti e i primi ministri possono imparare dall’esperienza della Cina. Gli eventi mostrano tuttavia che quelle lezioni non sono state apprese”. 

Oggi, i nostri medici in prima linea, che stanno subendo l’emergenza, parlano come i cinesi. “Questa è una guerra”, dicono, contro un nemico invisibile che non conosciamo. Da qui gli appelli di alcuni di noi, per settimane, a non minimizzare e a tenere alta la guardia, a non banalizzare e ad apprendere dall’esperienza cinese, intensa, drammatica, ma anche straordinariamente efficace. 

Un’altra lezione arriva dalla Cina proprio in questi giorni di grande difficoltà in Italia: la solidarietà, con messaggi, aiuti, equipaggiamenti medici e dottori. Come recita un nostro proverbio: un amico vuol bene sempre, è nato per essere un fratello nella sventura. In questo, Cina e Italia rappresentano il più antico esempio di amicizia tra popoli.

Per gentile concessione dell’autore